domenica 24 febbraio 2013

L'Impiccagione

Kòshikei

di Nagisa Oshima

con:  Do-yun Yu, Kei Satô, Fumio Watanabe, Toshirô Ishidô, Hôsei Komatsu, Rokko Toura.

Drammatico

Giappone (1968)












La pena capitale è tutt'ora un argomento scottante: su cosa si basa il diritto che lo Stato si arroga di privare della vita un condannato? A cosa serve davvero uccidere un reo? Nel 1968 Oshima Nagisa decide di dare un proprio resoconto sull'argomento basandosi su un punto di vista insolito: quello del condannato dopo la sua uccisione.



In un carcere giapponese si verifica uno strambo accadimento: un prigioniero di origini coreane appena giustiziato (Do-yun Yu) si "risveglia" da sotto il patibolo e comincia a porsi domande come in preda ad un attacco di amnesia; le autorità presenti (tra i quali un prete e il pubblico ministero) cercano di capire come sia possibile.
L'intera pellicola si svolge su due piani narrativi; il primo è totalmente interno al braccio della morte, dove le autorità si confrontano con il redivivo; il secondo, invece, è in esterni e segue la vita precedente del ragazzo e il rapporto con la sua vittima, una giovane ragazza anch'essa di origini coreane. 


L'assunto di Nagisa è chiaro e preciso: la pena di morte è totalmente inutile poichè non permette al condannato di comprendere il proprio crimine; se si parte dal presupposto che la punizione che lo Stato dovrebbere infliggere al reo, in uno stato di diritto, serve a rieducare lo stesso in vista del suo futuro reinserimento nella società civile, tale assunto diviene incontrovertibile; geniale è l'idea di partire dal punto di vista del condannato: non avendo potuto affrontare catarticamente la sua colpa, egli non sa il perchè della sua morte, nè riconosce il suo crimine; l'intera narrazione si focalizza così sul suo procedimento cognitivo, sulla realizzazione del male che ha inflitto; e qui Nagisa picchia duro: nella società degli anni '60 rinfaccia al pubblico gli errori commessi nel dopoguerra, in particolare il forte razzismo con cui venivano trattati i coreani, immigrati dopo la guerra; i crimini sono il frutto di una società intollerante, dunque; eppure non vi è mai un'idealizzazione del protagonista: le sue colpe non vengono nè coperte, nè addolcite; l'autore si pone nei suoi confronti come un padre: accetta l'errore commesso e lo sprona a rimediarvi; la catarsi avviene con una riconciliazione tra vittima e carnefice, in cui entrambi comprendono i punti di vista reciproci, fino ad arrivare al perdono; ma una società intollerante e propensa all'eliminazione fisica del reo può davvero accettare un processo del genere? Nagisa non ha dubbi: no; e infatti, nell'epilogo, il personaggio del magistrato, emblrma dello Stato che condanna ogni errore ed ogni vizio, disvela la sua innata crudeltà: dopo aver assisitito, in silenzio e senza intervenire, alla catarsi del condannato, egli lo condanna nuovamente a morte, affermando che una colpa non può e non deve rimanere impunita, metafora della totale insensibilità dello Stato verso la persona.


"L'Impiccagione" è uno degli atti d'accusa più riusciti e vibranti contro la pena capitale, che tutt'oggi non ha perso un grammo nè della sua forza estetica, nè di quella contenutistica; un altro capolavoro nella filmografia di un grande regista.

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