giovedì 18 aprile 2013

Edward Mani di Forbice

Edward Scissorhands

di Tim Burton

con: Johnny Depp, Winona Ryder, Vincent Price, Dianne Wiest, Anthony Michael Hall, Alan Arkin.

Usa (1990)





Per un regista come Tim Burton, giovane ma già dotato di una poetica personale, un successo mondiale come quello ottenuto con "Batman" (1989) fu una vera e propria manna dal cielo: con soli tre lungometraggi alle spalle, si era guadagnato il rispetto e la fiducia degli studios di Hollywood, i quali ora premevano per produrre la sua nuova fantasia, ben consci della sua vendibilità.
Fu così che un budget di 20 milioni di dollari, il controllo completo sull'opera e l'aiuto di uno studio imponente come la Fox, Burton fu in grado di realizzare praticamente subito quello che è tutt'oggi il suo capolavoro più personale: "Edward Mani di Forbice", fiaba macabra ma incredibilmente umana, nel quale convoglia perfettamente non solo il suo gusto estetico, ma anche il suo profondo disincanto.





Perché "Edward Mani di Forbice" è prima di tutto una fiaba adulta sull'impossibile accettazione della diversità; Edward, il protagonista, è l'archetipo del reietto: creatura dall'aspetto mostruoso e dalla natura incognita (morto vivente? automa?), ma dall'animo sensibile e dai modi gentili, viene inizialmente accolto con entusiasmo dalla piccola comunità suburbana; la scoperta di qualcosa di inusuale colpisce la società perbenista e massificata, la cui misera esistenza viene dipinta dall'autore con colori pastello e grandangoli ad esaltarne la profonda mostruosità celata sotto una patina allegra: una mostruosità fatta dall'omologazione, dall'incapacità di essere diversi, di avere una propria autonomia all'interno di un sistema di valori (ideali e materiali) condiviso, il quale, anzi, finisce per schiacciare tutto ciò che non può essere classificato o riassorbito.




I normali, di fatto, appaiono ben presto agli occhi dello spettatore come i veri mostri: ipocriti, sbruffoni, codardi e volitivi, riescono a distruggere tutto quello che non comprendono e a ridicolizzare la diversità; perfetto esempio di cotale orrore è la "casalinga disperata" che prima tenta in ogni modo di sedurre il povero Edward e poi lo descrive come un pervertito una volta che quest'ultimo, impaurito, fugge via lasciandola insoddisfatta; le sue unghie laccate, emblema della sua insaziabile cupidigia, sono artigli ben più spaventosi delle lame del povero protagonista.
Edward non è un "normale", non può confondersi tra loro e non solo sul piano strettamente virtuale: il rapporto con costoro fa emergere la sua diversità un pò alla volta; ma in cosa consiste davvero la sua diversità? Semplice: nell'ingenuità, contrapposta sistematicamente alla genuina ipocrisia dei normali; per Burton la middle-class altro non è che una fucina di mostri imbellettati, resi accettabili ai loro stessi occhi solo dal loro aspetto "ordinario"; perfetto simbolo di questa contrapposizione esterno/interno è il personaggio di Jim, vero e proprio antagonista di Edward: bello, ma arrogante, non prova rimorso nel compiere cattive azioni e nel mettere in pericolo la vita della sua ragazza pur di sconfiggere la sua nemesi, quel "diverso" usato e poi gettato via come un mero strumento dalla società. Gli schemi ordinari della fiaba vengono così sovvertiti: il mostro è il vero eroe, il bel principe è il vero mostro.
Unico persnaggio "normale" in tutti i sensi è il poliziotto: agli di Burton il tutore dell'ordine è la vera voce della ragione, che comprende la disperazione di Edward e decide di salvarlo dal linciaggio; non è dunque l'organizzazione sociale a rendere le persone mostruose, ma la loro intrinseca natura; corollario interessante e finanche veritiero, che l'autore in parte rovescierà nel successivo "Mars Attacks" (1996).



L'apparente mostruosità di Edward è, come si diceva, contraltare del suo animo sensibile: buono e ingenuo, fa di tutto per farsi accettare dagli altri, anche quando la loro fiducia viene meno; la sua storia d'amore con la bella Kim (una Winona Ryder dall'inedito ed affascinante look biondo) è tenera e disperata: i due non possono amarsi sia per la loro diversa condizione sociale che per la loro incompatibile fisionomia; le mani di Edward, infatti, rappresentano la perfetta metafora Burtoniana dell'impossibilità di relazionarsi (toccare) con il prossimo, vista l'enorme diversità delle rispettive nature ("mano" presente in quasi ogni film dell'autore).




Edward, in definitiva, non può essere accettato dai normali, nè può continuare a subirne le angherie: nell'ultimo atto torna al suo cupo castello, ma non rinuncia alla gentilezza, simboleggiata dalle splendide sculture di ghiaccio e dalla neve, emblema del suo amore eterno per Kim, in un finale poetico che non può che commuovere; e Johnny Depp, qui per la prima volta protagonista, è semplicemente perfetto nel ruolo del freak gentile: dallo sguardo triste e profondo, dalle movenze trattenute e goffe, è un clown triste che colpisce nel profondo.




Al suo quarto lungometraggio, Burton definisce totalmente il suo stile: pochissimi movimenti di macchina e inquadrature totalmente basate sulla scenografia; la fonte di ispirazione questa volta è data dai classici della Hammer e dell'Espressionismo tedesco: il castello di Edward sembra uscito da un film di Vincent Price (appunto!) e giochi di luci ed ombre, sopratutto nel primo atto, sono i degni eredi della tradizione di Weine e Murnau; il risultato è grandioso, ma mai tronfio: Burton è quasi all'apice della maestria visiva (che raggiungerà solo nel successivo "Batman Il Ritorno") e al vertice di quella narrativa; i simbolismi e le splendide metafore che l'autore qui usa saranno spesso ripresi nelle sue opere successive, ma solo di rado con gli stessi, ottimi, esiti.






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