mercoledì 24 settembre 2014

Child of God

 di James Franco

con: Scott Haze, Tim Blake Nelson, Jim Parrack, Brian Lally, Vince Jolivette, James Franco.

Usa (2013)





















Non è mai facile adattare un romanzo di Cormac McCarthy al cinema; autori come Ridley Scott e John Hillcoat ne hanno trasposto lo schermo le dense pagine in modo letterale, creando opere insipide e dimenticabili; mente nel 2007, i fratelli Coen tradirono completamente il testo originale di "Non è un paese per vecchi" per costruire uno dei loro film più memorabili; a metà strada si pone il lavoro di James Franco, che riprende le 166 pagine di "Figlio di Dio" per crearne un adattamento fedele quasi punto per punto, salvo poi omettere alcuni dei risvolti più importanti del testo di partenza, finendo per affossarne la portata cinica ed apocalittica.




Nella remota contea di Sevierville vive Lester Ballard (Scott Haze), un rude ed irredento figlio dell'anima più nera dell'America; ritardato ai limiti della follia più pura, analfabeta, dalle movenze animalesche e grottesche, Ballard intraprende una spirale discendente fatta di pedofilia, omicidio e necrofilia che lo trasforma in una vera e propria belva dalle fattezze umane.




Opera più unica che rara nella produzione mccarthyana, "Figlio di Dio" è un romanzo breve intenso e spiazzante sia per la scelleratezza della storia raccontata che per lo stile secco e ruvido, ai limiti dello sgrammaticato.
Lester Ballard è un deviato, sessualmente represso che sfoga la sua libidine su qualsiasi cosa gli capiti a tiro: dalle zotiche e lascive figlie della provincia alle coppiette in amore, finendo per amare i cadaveri, ossia oggetti priva di vita, incapaci nel rispondere alle sue azione o di notare il suo deficit umano e mentale.
Lester è il lerciume che infesta tutti gli angoli più remoti dell'America: è violento, rozzo, stupido; la storia della sua famiglia è costellata di atti di codardia e pazzia, quella della sua infanzia è un collage di atti di violenza perpetrata e subita. E dal momento in cui perde la sua casa, regredisce allo stato selvatico, divenendo una creatura dei boschi vera e propria. Ma questa volta McCarthy non dà un giudizio morale diretto sul "male" di Ballard, si limita, bensì, a descriverlo in modo chiaro e diretto, rievocando le sue sciagurate gesta senza filtri e non lasciando nulla alla fantasia del lettore.



Ballard viene descritto già nella prima pagina come un ragazzo dalla forma grottesca, dal carattere incivile e dai modi rozzi; ma viene anche descritto con una formula poi divenuta giustamente celebre: "Nient'altro che un figlio di Dio come voi, forse"; la devianza del personaggio viene così incasellata non tanto della sua mente malata, quanto come somma espressione dello squallore morale e materiale della società in cui è nato e cresciuto, quel nord-ovest americano fatto di violenza gratuita, sessualità distruttiva, prevaricazione e immoralità elevata a sistema. E di fatto, tutti i (pochi) personaggi che gravitano attorno al protagonista sono anch'essi deviati e incrostati dai peggiori difetti dell'uomo, anch'essi disfunzionali e rozzi, nei confronti dei quali Ballard si pone come uno specchio distorto ed iperbolico.
La critica di McCarthy si muove dunque non tanto verso il suo anti-eroe, quanto verso quella società che lo ha creato e plasmato, un mondo fatto di pura violenza, dove il Ku Klux Klan si emancipa dalla radice razziale per divenire congrega di tagliagole; e persino le forze che gli si oppongono sono anch'esse violente e distruttrici.
Un mondo in preda al caos più puro, del quale Ballard è la pura e semplice personificazione, e che viene punito con un alluvione biblica, a seguito della quale persino il marcio protagonista dovrà scontare, in modo invero anticonvenzionale, le sue colpe.




Nel trasporre in immagini il capolavoro di McCarthy, Franco e il co-sceneggiatore Vince Jolivette dividono idealmente la sceneggiatura in due parti: fino a metà film seguono pedissequamente le pagine del libro, aprendo con un prologo nel quale portano su schermo le medesime parole con cui si apre il primo capitolo del romanzo; il montaggio viene diradato: ogni scena sfuma nel nero per attendere la successiva e si compone degli stessi identici avvenimenti narrati su carta, come se lo spettatore stesse di fatto leggendo il libro; la fusione dei due registri, su un piano strettamente grammaticale, riesce perfettamente, anche grazie alla messa in scena ruvida e sporca, che indugia sui dettagli più bassi e disgustosi in modo diretto e crudo, proprio come lo scrittore faceva nel romanzo.
E' nella seconda parte, a cominciare dal cosiddetto "Capitolo II", che Franco e Jolivette decidono inspiegabilmente di eliminare alcuni dei passaggi e personaggi più importanti; non c'è traccia del guardiano della discarica e delle sue lascive figlie, del neonato ritardato, nè dell'alluvione che castiga la provincia di peccatori; sopratutto, il finale originale viene omesso, lasciando fuori dalla narrazione il contrappasso che colpisce Ballard e chiudendo tutto con la sua ideale rinascita, che così perde di ogni significato.




L'operazione si trasforma così da trasposizione letterale ad adattamento "depotenziato" del romanzo d'origine, contraddicendosi nel corso della sua durata; l'interpretazione di Franco si appiattisce unicamente sul cinismo distaccato verso il suo mostruoso protagonista, senza mai dare giudizi sul mondo che lo ha creato, perdendo totalmente di mordente. Anche se preso in sé, senza fare confronti con il testo di base, "Child of God" risulta freddo: il distacco verso le immagini mostrate si traduce in mancanza di mordente, non riuscendo mai a turbare o scioccare; e la fedeltà estrema a quel che resta del libro di McCarthy diviene alla fin fine una gabbia che impedisce a Franco di rielaborare in modo più visionario o complesso la narrazione degli avvenimenti, che scorrono inesorabili su schermo senza risvegliare nessuna vera emozione nello spettatore, né da un punto di vista emotivo, né intellettivo.




Privata del suo contesto e del suo finale originale, la parabola di Ballard finisce così per divenire l'ennesimo film indie dal coraggio immane, ma privo di forza espressiva, che si diverte mostrare immagini crude, ma che non riesce mai davvero a sconvolgere; l'unica nota di colore in quest'ennesima operazione di sottrazione estetica e narrativa viene data dalla magnifica performance di Scott Haze, che si perde nei meandri del suo personaggio, immedesimandovisi totalmente, talvolta scadendo nell'overacting più didascalico, ma riuscendo lo stesso a convincere in ogni singola scena.

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