lunedì 10 novembre 2014

Interstellar

 di Christopher Nolan

con: Matthew McConaughey, Jessica Chastain, Anne Hathaway, Michael Caine, John Lithgow, Wes Bentley, David Gyasi, Casey Affleck, Matt Damon, Topher Grace.

Fantascienza

Usa, Inghilterra (2014)

















Se c'è una cosa che a Nolan riesce sempre, è quella di dividere la critica ed il pubblico; tra chi lo osanna come un maestro della Settima Arte a chi lo apostrofa come un furbetto capace solo di dare al pubblico e alla critica quello che vogliono vedere, sono in pochi coloro i quali riescono davvero a dare una valutazione oggettiva e distaccata alle sue opere, di volta in volta additate o come capolavori o come fesserie; non fa eccezione "Interstellar", ritorno all'hard sci-fi del blockbuster americano che l'autore inglese riprende da un progetto abbandonato qualche anno fa da Spielberg e che riplasma su una concezione di fantascienza intelligente ed umanistica di stampo squisitamente autoriale; operazione che, a discapito dei detrattori delusi, gli riesce in pieno.




Abbandonate le influenze del cinema metropolitano di Michael Mann, Nolan si rifà alla fantascienza classica più seminale: riprende il tema del confronto tra l'essere umano e l'ignoto da "2001: Odissea nello Spazio" (1968) di Kubrick (del quale "Interstellar" può essere visto come una sorta di remake "d'autore", vista la sua struttura narrativa) e l'introspezione umanistica ed empatica dal "Solaris" (1972) di Tarkovsky; ma quello dell'autore britannico non è un semplice saccheggio di idee, né pura derivatività, quanto una rielaborazione di quanto giù fatto dai due grandi autori, nel quale inserisce tematiche proprie e per certi versi inedite.



Il fulcro concettuale di "Interstellar" è diverso da quello dei capolavori a cui si ispira: è il conflitto tra l'essere umano in quanto singolo e l'uomo come specie; un conflitto nel quale i sentimenti individuali si scontrano con le necessità collettive: la sopravvivenza della razza umana come urgenza dovuta all'esaurimento delle risorse energetiche si confronta con l'impulso di un padre, il pilota Cooper (McCounaghey) si poter riabbracciare i propri figli; il conflitto è, in sostanza, quello tra le necessità individuali e quelle universali, nel quale Nolan non prende posizioni, allontanandosi dalla tradizione di un certo cinema hollywoodiano buonista che mette al centro di tutto sempre e solo le esigenze individualistiche e i valori familiari tradizionali; perchè Cooper è sicuramente in sostanza un eroe, un impavido sognatore e viaggiatore, ma anche un personaggio i cui difetti non vengono mai nascosti né giustificati; la sua voglia spasmodica di tornare sulla Terra si scontra puntualmente con l'esigenza della missione, incarnata dal personaggio della dottoressa Brand (Anne Hathaway), fino a scomparire del tutto alla fine del secondo atto.



La fusione delle due influenze, opposte e complementari, di Kubrick e Tarkovsky è in Nolan pressocchè perfetta; la componente visionaria del film del'68 viene filtrata mediante lo stile dell'autore, che qui si fa magistralmente rigoroso; tutte le sequenze più spettacolari e grandiose non vengono mai gonfiati ad intrattenimento puro; le fughe dai pianeti inospitali, il viaggio transdimensionale nel wormhole e nel buco nero e persino i più "classici" voli nello spazio sono costruiti in modo sobrio, con inquadrature ancorate alla carlinga laterale della nave come a mimare i filmati di repertorio della NASA; l'effetto è al contempo spiazzante ed ammaliante, tra la rielaborazione fantasiosa più pura e la fisicità più estrema per donare al tutto un senso di verosomiglianza che, ancora più che in "Gravity" (2013), avvicina davvero la fantascienza al concetto di realismo.



Verosomiglianza che passa sopratutto attraverso le scelte registiche più contingenti, come l'uso di vere locations per dare forma ai pianeti alieni, e di minuature ed SFX per animare le scene di volo nello spazio; il blockbuster fantascientifico ritrova così una forma di autenticità che sembrava persa sotto le tonnallate di pixel della CGI e nella spettacolarizzazione virtuoisistica di ogni singolo effetto; prassi a cui Nolan rinuncia persino nelle sequenze e negli aspetti più "rischiosi"come nel climax con la discesa nel buco nero, dove l'autore non rinuncia al rigore quasi stoico nella messa in scena nemmeno per un istante, senza mai abbandonasi alla contemplazione del "tesseratto gravitazionale" per il mero gusto di mostrare un'immagine potente; o, sopratutto, nel design dei robots, che perdono ogni componente ludica per divenire forme astratte e funzionali, la cui caratteristica più spettacolare non è data dalle azioni, ma dal carattere estremamente umano.




Realismo che viene raggiunto definitivamente grazie alla consulenza scientifica del fisico Kip Thorne, autore delle teorie sull'unificazione tra spazio-tempo e gravità alla base di tutta la sceneggiatura, che permette ai fratelli Nolan di costruire uno script basato sui paradossi spazio-temporali senza mai cadere nella contraddizione logica o nell'improbabilità, come spesso succede alle pellicole sci-fi che giocano troppo facilmente con i concetti di relatività e nesso causa-effetto.



Più opaca è invece la rielaborazione dei temi umanitari; nel prediligere una messa in scena forzatamente classica sino ai limiti del teatrale, Nolan costruisce la relazione a distanza tra Cooper e la figlia Murph (Jessica Chastain) con una serie di sottrazioni; i momenti topici dell'abbandono, della scoperta della crescita e del ricongiungimento finale vengono costruiti affidandosi totalmente alle ottime prove degli attori, in particolare di McCouneghy, che nella scena del videomessaggio "in differita" dimostra una capacità di concentrazione unica nel suo genere. Ma al di là di queste tre scene, tutta la narrazione riguardo ai concetti di nostalgia e del terrore dell'abbandono vengono lasciati ai dialoghi con Brand ed il resto dell'equipaggio, risultando fin troppo didascalici e noiosi, finendo per appiattire persino la caratterizzazione dei personaggi stessi, che a tratti divengono dei semplici clichè.




E' inutile e deleterio cercare poi altri paragoni con i titoli di riferimento: "Interstellar" non è e non vuole essere un nuovo "Odissea nello Spazio", né un nuovo "Solaris"; Nolan si limita a riprendere l'eredità dei lavori del maestri del passato e a riarrangiarla in chiave moderna, filtrandola mediante il suo stile, sottraendo la liricità del primo e la sensibilità del secondo per creare qualcosa di sicuramente non nuovo, ma di riuscito.



Di suo, "Interstellar" è una pellicola sci-fi intelligente e di sicuro fascino; non solo le teorie di Thorne restano intriganti, ma anche il futuro inventato da Nolan è inquietantemente credibile: un mondo privo di risorse nel quale l'umanità ha accettato la propria fine ripegando verso l'oscurantismo ed involvendosi ad una società simile a quella americana antecedente la II Guerra Mondiale. Ed è in questa intelligenza di fondo che sta il vero valore del film di Nolan: nel saper dare qualcosa di interessante e divertente senza tediare o scadere nello spettacolo fine a sé stesso; operazione che solo i grandi registi sanno fare.



EXTRA

Al di là delle citazioni più erudite e dei rimandi più impegnati, allo spettatore più navigato non saranno sfuggiti due richiami che Nolan fa alla cultura pop più mainstream; tra i libri presenti nella biblioteca di Murph spunta una copia del capolavoro di Stephen King "The Stand" (in Italia "L'Ombra dello Scorpione"), anch'esso incentrato sull'estinzione della razza umana a seguito di un'epidemia mortale.



Più diretta è invece la citazione più spiazzante di tutto il film: la spiegazione del funzionamento del wormhole fatta dal personaggio di Romily a Cooper è ripresa da quella fatta da Sam Neill all'equipaggio dell'astronave del film "Event Horizon" (1996), fanta-horror anch'esso incentrato su un viaggio intergalattico effettuato mediante un buco nello spazio-tempo; vedere un film del Re del Trash mainstream Paul W.S. Anderson citato in un film di Nolan è forse il momento più genuinamente agghiacciante di tutto il film.


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