lunedì 5 ottobre 2015

Occhi di Serpente

Dangerous Game

di Abel Ferrara.

con: Harvey Keitel, Madonna, James Russo, Victor Argo, Nancy Ferrara, Reilly Murphy.

Usa, Italia- 1993

















Sino al 1993, la poetica di Abel Ferrara era basata sull'utilizzo del registro di genere per dar vita a storie che lasciassero trasparire una profondità inusuale ed efficace, pur essendo sempre ascrivibili allo stesso. Come nel caso di "King of New York" (1990), tranquillamente assimilabile al gangster movie, o "Fear City" (1984) variazione sul classico canovaccio del "killer a piede libero".
Con "Occhi di Serpente", Ferrara abbandona la narrativa "bassa" per utilizzare un registro nuovo, quello del metafilm, rifacendosi a classici del cinema europeo come "Effetto Notte" (1973) e "Il Disprezzo" (1964), unendo la descrizione del caos mentale e fisico che si crea sul set con una disanima feroce dei suoi personaggi. Nonostante l'impegno, il risultato è superficiale, anche se non disprezzabile.


I piani narrativi sono tre: il regista Eddie Israel, interpretato da Harvey Keitel e ricalcato sulla figura dello stesso Ferrara, dirige un film su di una crisi di coppia, formata da Madonna e James Russo. Ai classici problemi sul set si affianca lo spaccato del set stesso, dove il lavoro di messa in scena diviene essa stessa messa in scena. Al contempo, osserviamo il rapporto tra i tre personaggi sfaldarsi o ricomporsi, sino ad una chiusa inusitata.



I tre piani si intersecano quasi subito tra loro. Ferrara, di fatto, anticipa il lavoro che farà Lynch nel capolavoro "INLAND EMPIRE" (2006). Ma se nel film di Lynch la narrazione era un unicum che spaziava tra presente, futuro, finzione e realtà, in "Occhi di Serpente" la finzione, il set e le vite dei personaggi non arrivano mai a confondersi, ma ad influenzarsi.
La vita privata del regista si riflette nel suo film, chiamato ironicamente "Mother of Mirrors". La storia che vuole raccontare è la perfetta esemplificazione del cinema di Ferrara: una giovane coppia dedita all'edonismo e alla promiscuità, vive una profonda crisi a seguito della riscoperta spirituale della donna, opposta alla rabbia compulsiva di lui. Spiritualità benigna si contrappone all'indole distruttiva della carnalità, in un crescendo di soprusi e violenza. La caduta in disgrazia dei due è specchio, appunto, della caduta in disgrazia dell'autore, che lascia la famiglia, simbolo benigno, nella prima scena per compiere un'ideale discesa nell'autodistruzione.
Laddove Ferrara incespica è nel rendere credibile questa distruzione, che prende la forma del tradimento con l'attricetta Sarah e la relativa rottura con i legami affettivi. Mentre l'avvicinarsi dei due amanti è costruito in modo credibile e a tratti romantico, del tutto fuori luogo è la decisione di Israel di confessare il tradimento alla moglie; decisione presa in seguito ad una catarsi avutasi con la visione dei giornalieri del film, ma la cui escalation polemica e sensazionalistica è tronfia, quasi caricaturale nella sua ricerca ad oltranza del dramma e della dannazione. Ancora più improbabile è la conseguenza della confessione, davvero troppo estrema per essere credibile,



Il gioco di specchi sull'anima del personaggio si rompe, quindi, con il progredire della narrazione. Molto più riuscita risulta, d'altro canto, la descrizione della vita del set, nella quale Ferrara espone il suo metodo e l'amore che ha per la direzione degli attori. La messa in scena della crisi diviene celebrazione della forza espressiva del cinema, nel quale il buio dell'anima dei personaggi viene ritratto con dialoghi secchi, litigi furiosi e violenza cruda, che corrode nonostante sia filtrata dal doppio punto di vista. Su questo piano, il gioco degli specchi è semplicemente perfetto: il meccanismo di inclusione, "a scatole cinesi", permette di esprimere un duplice punto di vista, quello dell'autore, ma anche quello degli interpreti chiamati a dar vita alla sua visione; i quali, lungi dall'essere semplici marionette, si perdono nei meandri dei personaggi sino a divenire con loro un tutt'uno, annullando il discrimine tra realtà e finzione. La realtà di "Occhi di Serpente" vive di conseguenza non tanto nelle sequenze nelle quali i personaggi sono protagonisti, ma in quelle in cui sono chiamati a vestire i panni dei personaggi nel film all'interno del film, che diviene, giocoforza, vero strumento espressivo, vero territorio narrativo, in un inversione totale che, come nella canonica narrazione cinematografica, dura dall'azione allo stop.




E la riuscita di questa parte si deve anche alla prova del cast. Se Madonna, la diva delle dive, sorprende in un ruolo ai limiti dell'autobiografico, sfoggiando un'espressività insperata, Harvey Keitel è semplicemente perfetto come maschera di un uomo che si ritrova faccia a faccia con le sue mancanze, ma anche con le sue speranze.
E benchè questo primo excursus nel cinema teorico non sia del tutto riuscito, "Occhi di Serpente" non può essere visto come una scommessa persa (nonostante il titolo, che si riferisce alla "faccia da poker" di chi sa di dover perdere, lo lasci intuire), poichè fa letteralmente da apripista al successivo "The Addiction" (1994), supremo saggio dell'autore sulla distruzione e ricomposizione della narrazione cinematografica.

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