sabato 12 dicembre 2015

4 Mosche di Velluto Grigio

 di Dario Argento.

con: Michael Brandon, Mimsy Farmer, Bud Spencer, Jean-Pierre Marielle, Aldo Bufi Landi, Callisto Calisti, Oreste Lionello.

Thriller

Italia, Francia 1971















---CONTIENE SPOILERS---

Ultimo capitolo della "trilogia animale", cominciata sorprendentemente con "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970) e proseguita in modo mediocre con "Il Gatto a Nove Code" (1971), "4 Mosche di Velluto Grigio" rappresenta un ritorno alla forma smagliante degli esordi per il primo Argento. Thriller "classico", basato sui dettami del "giallo all'italiana" e del canonico "Whudunnit", questo terzo exploit si lascia apprezzare tutt'oggi per la carica visionaria, la bella fotografia e l'uso a tratti originale dei luoghi comuni del genere.


Il batterista Roberto (Michael Brandon) viene coinvolto suo malgrado in un omicidio. Ossessionato dai sensi di colpa, ben presto viene ricattato da uno strano figuro, la cui identità è celata da un'inquietante maschera infantile. Con l'aiuto del barbone Diomede (Bud Spencer), del suo amico detto "il professore" (Oreste Lionello) e di uno scalcinato detective omosessuale (Jean-Pierre Marielle), Roberto cerca in tutti i modi di smascherare il suo stalker.


Abbandonata la piattezza all'americana del film precedente, Argento torna a costruire la narrazione attorno al tema della visione e della sua manipolazione. Roberto viene incastrato grazie ad una vera e propria sciarada e ricattato con le foto della stessa, dalle quale traspare una sua possibile, ma fasulla, colpevolezza. Allo stesso modo, il dettaglio che gli permette di smascherare il killer deriva dall'ultima immagine saldatasi nella cornea di una delle vittime, data dalle "4 mosche" del titolo.
Tema della visione che viene sottolineato dalle belle sequenze in soggettiva, che anticipano quelle ancora più riuscite del successivo "Profondo Rosso" (1975): la visione del killer e quella di Roberto si intrecciano nella soggettiva per annullare ogni intermezzo tra soggetto e spettatore, con esiti eleganti e spettacolari, come la scena dell'ingresso al teatro o l'omicidio dell' "attore", totalmente consumato in prima persona, in una ripresa del classico "L'Occhio che Uccide" (1960).


La rielaborazione del giallo si riaffaccia nelle atmosfere oniriche e nei sogni del protagonista. La bellissima fotografia di Franco di Giacomo immerge le azioni in una tenebra opprimente, che si fa setting ideale per le sequenze di morte, ancora più stilizzate che in passato. Le visioni di Roberto e del killer si scindono per farsi dapprima rielaborazione degli eventi, poi, una volta giunti nel finale, flashback e flashforward degli stessi, con la decapitazione che si trasforma da elaborazione del senso di colpa ad anticipazione della bella sequenza di chiusura. Il tema della pazzia e il gender del killer ritornano nuovamente e, da qui, divengono tratti essenziali nella poetica dell'autore, rinverdendone i fasti.
Le false piste (i "red herring" derivanti dal giallo all'americana) si moltiplicano: tanti i personaggi introdotti con possibili moventi per gli omicidi, molti dei quali riescono davvero a sviare l'attenzione dello spettatore più attento e partecipe. Tanto che la rivelazione finale giunge davvero inaspettata, prova dell'ottima costruzione narrativa.


Laddove Argento inciampa è nella commistione con il registro comico. I personaggi di Diomede, interpretato da un inedito Bud Spencer, del professore e del detective spezzano fin troppo bene la tensione, introducendo una serie di sequenze troppo sopra le righe, come quella della "mostra d'arte funeraria", che sembra uscita più da un episodio di "Fantozzi" che a un thriller all'italiana.
Giustapposizione che non sempre paga, ma che non affossa del tutto le sorti della pellicola, a conti fatti forse tra le migliori del (ex) maestro del brivido.

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