mercoledì 30 marzo 2016

Lo Squalo

Jaws

di Steven Spielberg.

con: Roy Scheider, Richard Dreyfuss, Robert Shaw, Lorrainne Gray, Murray Hamilton, Karl Gottileb.

Thriller

Usa 1975
















Di epiteti, Steven Spielberg ne può contare davvero tanti: dal famoso "Re Mida di Hollywood" a "regista più sopravvalutato di sempre", passando per alcuni decisamente poco lusinghieri come "buffone", "istrione" e "autore bollito", termini e soprannomi non gli mancano davvero. E' curioso, tuttavia, constatare come in questo marasma, forse nessuno ha avuto mai il coraggio o la lungimiranza di etichettarlo con un termine che, a ben vedere, si attanaglia perfettamente alla sua filmografia e, in parte, alla sua visione autoriale: quello di "perfetto regista di genere".
Questo perché quasi tutti i migliori esiti del suo cinema (se si escludono tra i migliori, in sostanza, solo tre titoli, ossia "L'Impero del Sole", "Schindler's List" e "Munich") sono tutti rigorosamente film di genere, come il suo folgorante esordio "Duel" (1971), l'imprescindibile "I Predatori dell'Arca Perduta" (1981) e lo sfavillante "Le Avventure di Tin Tin- Il Segreto dell'Unicorno" (2011). Oltre, naturalmente, a "Lo Squalo", il suo primo vero capolavoro.




Reduce dal mezzo flop di "Sugarland Express" (1974), che gli aveva comunque garantito una buona visibilità, nel 1975 l'enfant prodigé di Hollywood decide di portare su schermo il romanzo "Jaws" di Peter Benchley, la cui trama è, nella migliore tradizione della narrativa di genere, striminzita: nella piccola località balneare di Amity, un gigantesco squalo bianco terrorizza i bagnanti; lo sceriffo Brody (Scheider) decide di dargli la caccia, coadiuvato dal giovane "pescecanologo" Hooper (Dreyfuss) e al navigato cacciatore di squali Quint (Shaw).
Questa volta il successo è globale e il nome di Spielberg diviene sinonimo di grande cinema, oltre che di successo commerciale. Utilizzando una strategia allora inedita, la Universal decide di far uscire il film durante la stagione estiva, in modo da permettere allo spettatore di immergersi meglio negli eventi; il risultato fu dirompente: a fronte degli otto milioni di budget, "Lo Squalo" ne incassa complessivamente 260 solo negli Stati Uniti (oltre 470 in tutto il mondo), inaugurando il trend dei blockbuster estivi, anticipando i record di spettatori ed incassi di "Guerre Stellari" (1977) ed infliggendo un primo, duro colpo alla politica degli autori della New Hollywood. Ma a differenza del blockbuster di Lucas, la grandezza del film di Spielberg è innegabile: "Lo Squalo" è innanzitutto un perfetto meccanismo di tensione, un gioiello del thriller classico ibridato con la tradizione del "beast movie", che da qui in poi tornerà ad essere uno dei filoni più frequentati dal cinema di genere.




Rifacendosi ad Hitchcock, Spielberg usa la tecnica del "crescendo" per la costruzione di ogni singola sequenza di tensione. La paura cresce a poco a poco, sottolineata dal celebre score di John Williams, qui usato come strumento di messa in scena, divenendo parte integrante ed essenziale del meccanismo grammaticale. Ad una costruzione certosina si giustappone la velocità del climax, che porta ad esplodere la tensione in attimi brevi, dove la bestia uccide la vittima di turno o, con un'inversione verso l'anticlimax totale, si scopre come la minaccia fosse infondata.
La genialità di Spielberg sta, poi, nel non mostrare l'animale per i primi due atti: l'animatrone utilizzato all'epoca, enorme e difficile da utilizzare in acqua, non permetteva l'uso di inquadrature troppo lunghe; per ovviare a tale inconveniente, l'autore fu costretto a celarlo per la maggior parte della durata; soluzione geniale fu quella di utilizzare il suo punto di vista per gli attacchi, con la macchina da presa che diviene, letteralmente, la visuale dell'assassino, in una ripresa delle lavoro svolto dal grande Michael Powell nel suo capolavoro "Peeping Tom" (1960). Il virtuosismo stilistico diviene così perfetto strumento di tensione, che dona al film un'unicità stilistica incredibile.





Proprio lo squalo torna ad incarnare quella paura atavica, primordiale, che Spielberg già dipingeva con efficacia in "Duel": un mostro ora non più meccanico, prodotto da una natura oscura, i cui meccanismo restano ignoti all'uomo, creatura imprevedibile e inarrestabile, incarnazione di un ignoto ostile, distruttivo, per questo visceralmente inquietante. Natura alla quale si contrappone l'idiozia di un essere umano che invece si è totalmente distaccato dalla sua primordiale necessità, la sopravvivenza, per dedicarsi unicamente alla ricerca del profitto. Conflitto che resta sempre sullo sfondo degli eventi, ma lo stesso avvertibile come tematica.





Ed è nel terzo atto che l'estro di Spielberg tocca il vertice massimo. Da un lato concede spazio ai tre protagonisti, che confrontandosi e confessandosi riescono ad incrementare il coinvolgimento; dall'altro riesce a muovere con efficacia la macchina da presa in pieno oceano, mostrando polso fermo ed incredibili capacità di coordinazione, prova della sua grandezza come regista, che qui giunge ad una prima, perfetta maturazione.

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