sabato 19 novembre 2016

Fino all'Ultimo Respiro

A' Boute de Souffle

di Jean-Luc Godard.

con: Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Henri-Jaques Huet, Roger Hanin, Jean-Pierre Melville.

Francia 1960
















Se la Nouvelle Vague trova i suoi iniziatori ufficiali in Alain Resnais e François Truffaut già nel 1959, è a partire dal 1960 che si afferma definitivamente nell'immaginario cinematografico ed artistico come opera di ristrutturazione definitiva del linguaggio filmico. Tappa essenziale, questa, che la eleva da semplice variazione sul classicismo ad esatta e totale contrapposizione allo stesso: il "cinema dei papà" è ufficialmente morto, dal suo cadavere fuoriesce una nuova forma estetica, cosciente di sé, della propria natura e dei propri limiti, il cui linguaggio è più ardito, sprezzante, immediato, quasi acido nel suo non conformarsi a nessuna regola predeterminata in passato.
Ed è del tutto normale come il fautore di questo nuovo corso sia Jean-Luc Godard, che da qui, con il suo esordio "A' Boute de Souffle", si impone come il sommo teorico sulla grammatica filmica che il cinema abbia mai conosciuto.






Laddove l'amico e collega François Truffaut era la quintessenza dell'autore, di colui che faceva confluire aspirazioni e passioni del tutto personali all'interno della propria opera, Godard è il pensatore, un artista del tutto incapace di divincolarsi da una forma di metapensiero attraverso la costruzione narrativa: tutta la sua filmografia altro non è se non un gigantesco discorso sul mezzo filmico, talvolta inframezzata da riflessioni politico-sociali, ma sempre e comunque ancorato ad un visione fluida ed ipercosciente del linguaggio, del contenente sul contenuto.






E non deve stupire come questo suo esordio dietro la macchina da presa rappresenti la sintesi perfetta di tutto questo (infinito) discorso: si parte dal classico, il noir americano, solo per poterlo smontare pezzo per pezzo; dissezionato il "genere", la mano dell'autore penetra in profondità sino a toccare il mezzo, per stravolgerne i topoi: la sceneggiatura (scritta da Truffaut) diviene mero canovaccio, ancora meno importante che ne "I 400 Colpi", al punto che dialoghi ed azioni vengono riscritti giornalmente per meglio adattarsi all'ispirazione del momento; il montaggio perde ogni forma di linearità all'interno della scena e tra le scene: l'uso del jump cut immediato (già sperimentato in alcuni documentari del periodo) spezza la sequenza temporale interna frammentando la scena in singole inquadrature che da sole non hanno senso, il quale torna solo mediante l'opera di raccordo; il naturalismo viene bandito: il cinema è finzione, le immagini sono false, inscenate ad hoc per avere senso; di per sé stesse possono non averne, come singole sillabe all'interno di una frase; è il costrutto che ne segue ad averne, mediante l'opera di (ri)costruzione.





Artificiosità che Godard contrappone alla naturalezza totale della ricostruzione. La sua macchina da presa pedina i personaggi, li segue come se fosse a sua volta lo sguardo di un personaggio invisibile che si muove sulla scena. Insegue i suoi protagonisti i quali si muovono di vita propria, non più manichini mossi dai fili dello script e della messa in scena, quasi perone reali le cui vite vengono riprese da un occhio onnipresente.
Con la prima e più importante conseguenza che concerne il setting: solo location reali; la Parigi di "A' Boute de Souffle" è la vera Parigi del 1960, le persone appaiano nei fotogrammi senza sapere di essere riprese, quelle delle auto e delle vetrini sono immagini rubate ad un tempo ed uno spazio preciso, impresse a fuoco in una pellicola ad imperitura testimonianza del singolo attimo. Il confine tra realtà e finzione, una volta preso coscienza dello stesso, si assottiglia sino quasi a scomparire.






Così come nella forma, anche nella struttura narrativa il noir viene totalmente stravolto, al punto che lo stesso accostamento allo stile risulta fuorviante.
La trama di base, per quanto scarna, è a grandi linee quella di un perfetto esponente del genere: il ladruncolo Michel Poiccard (Belmondo) uccide per noia un poliziotto nelle campagne. Rientrato a Parigi, si diverte con la sua bella compagna Patricia (Jean Seberg) ignaro della caccia all'uomo in corso, finché proprio lei lo tradisce consegnandolo alle autorità.
L'esecuzione del tutto, come ovvio, fa la differenza.






Non ci sono schematismi di sorta, sul piano narrativo; non c'è una vera divisione in atti, solo un mero inizio (nel quale la macchina da presa irrompe nell'auto di Michel, ad azione già cominciata), una parte centrale ed una fine. Tutti i dialoghi (o quasi) sono improvvisati. Al centro di tutto ci sono i due personaggi principali, Michel e Patricia, il loro rapporto amoroso, il loro inseguirsi nelle minuscole stanze dell'appartamento, le passeggiate sugli Champs Eliysee, le camminate per i vicoli parigini, i loro volti ed i loro sguardi. Godard non costruisce nulla in modo esplicito, lascia che i due protagonisti prendano forma definita grazie ai due interpreti, lo statuario Belomndo, che da qui diverrà il divo di punta della Nouvelle Vague e la candida ed eterea Jean Seberg.






Il rapporto tra i due è vago, volutamente liquido, sospeso tra attrazione irresistibile e fredda sopportazione. Il modello di riferimento, quel Bogart che Godard giustappone a Michel, è lontano, confinato in una dimensione ideale del tutto antitetica all'universo del film. Le parole si perdono, i corpi si rincorrono nello spazio dell'inquadratura e tra le scene senza andare (quasi) da nessuna parte.
Non c'è una vera catarsi, non c'è uno scioglimento, tantomeno una morale vera e propria o una tematica ferrea che vada al di là dell'estetica e della narrativa. Il rapporto tra Michel e Patricia vive nell'attimo, nello sguardo, in dialoghi che celano molto più di quello che dicono e che si esprimono più con le immagini associate che con le sole parole. La finzione del cinema viene così ridimensionata e al contempo resa più evidente: possiamo solo osservare queste due creature dimenarsi nel maelstrom dei loro sentimenti, non possiamo chiedere loro di ballare per noi, di essere più partecipi ai loro moti interiori di quanto non vogliano mostrarci. La macchina da presa si fa così puro strumento contemplativo, la teatralità si estingue per lasciar spazio ad una nuova forma narrativa, al contempo conscia e dimentica della propria natura.






A fare da ago della bilancia in questo rapporto tanto vero da sembrare falso, è niente meno che Jean-Pierre Melville, proprio lui, il padre del polar qui nelle vesti di uno scrittore che lancia sentenze sulle donne: "Due cose sono importanti nella vita; per gli uomini, le donne; per le donne, il denaro". Una venialità, la sua, che traduce il cinismo di Godard in parole indimenticabili. Solo uno, in realtà, degli ispiratori che l'autore rievoca per il tramite della sua opera: Bergman, con i suoi primi piani espressivi, ritorna spesso tra le pieghe delle immagini, così come il giovane Laszlò Kovacs, i cui filmati della rivolta di Praga furono di grande impatto per la generazione di Godard.





Distruggendo ogni schema precostituito, "A' Boute de Souffle" si fa così estrema ed estremizzante celebrazione del mezzo filmico, della sua capacità di ritrarre in modo diretto volti e stati d'animo senza necessità di sovrastrutture di sorta, un inno alla spontaneità ed immediatezza di quella grammatica filmica pura che ossessionerà Godard per tutta la sua carriera.
Il suo discorso troverà fama imperitura nei filmmaker a venire: da Fassbinder sino a Tarantino, passando per i giovani Brian De Palma e Francis Ford Coppola, solo per citarne alcuni; tutti i giovani registi si confronteranno, in un modo o nell'altro, con il lascito del primo Godard, aggiungendo o togliendo qualcosa a quanto da lui fatto con il noir e, in genere, con la narrazione per immagini, prova della grandezza di uno dei più seminali capolavori del Cinema.





EXTRA


Ha senso creare il remake di un'opera prettamente personale?
Ovvio che no: tolto l'occhio di Godard, ad "A' Boute de Souffle" resta una storia quasi inesistente e due personaggi che vivono essenzialmente grazie agli interpreti.
Naturalmente questo non ha fermato Hollywood, che nel 1983 sforna "Brathless" (in Italia "All'Ultimo Respiro"), remake firmato dal mestierante Jim McBride ed interpretato da Richard Gere nei panni del novello Poiccard. Il risultato, per quanto ridicolo sulla carta, ha una sua dignità, pur non essendo neanche lontanamente paragonabile all'originale, né per forma, né per profondità.


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