martedì 20 dicembre 2016

Jules e Jim

Jules et Jim

di François Truffaut.

con: Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre, Vanna Urbino, Serge Rezvani, Anny Nelson.

Francia 1962
















Il folgorante esordio de "I 400 Colpi" (1959) lancia Truffaut nell'olimpo degli autori mondiali; il riconoscimento di critica e pubblico riservato all'opera prima santifica quella "politica degli autori" che ne mosse la volontà. Ma il suo secondo film, "Tirate sul Pianista" (1960), non ne confermò il talento: troppo chiuso in sé stesso, lontano da quella sensibilità che bene o male avrebbe dimostrato per tutta la sua carriera, più vicino alle sperimentazioni virtuose di Godard ma senza i suoi lampi di genio. Truffaut, in sostanza, cadde nella "trappola delle opere seconde" che tutt'oggi affligge molti grandi artisti i cui esordi sono riusciti a smuovere grossi interessi nei loro confronti.
Poco male, perché superato questo momentaneo intoppo, il grande regista poté realizzare una piccola ambizione personale: portare sullo schermo l'amatissimo romanzo di Henri-Pierre Roché "Jules et Jim".
Scritto che Truffaut aveva incrociato per puro caso nel 1955, tra le svendite di una delle librerie che era solito frequentare. L'amore per quelle pagine fu folgorante: lo stile sobrio, mai scabroso, anzi quasi poetico si scontrava con una storia per l'epoca tabù, un menagè a trois basato su di una serie di episodi autobiografici di Roché, in una contrapposizione tra contenente e contenuto a dir poco fantasmagorica.




Al punto che il giovane Truffaut, ancora lontano dalle luci della ribalta ma già formatosi presso i "Cahiers du Cinema" di Bazin, comincia ad intrattenere una solida e florida relazione epistolare con Roché, il quale si rincuora dell'entusiasmo del giovane critico per un romanzo che ben poco successo aveva ottenuto, scritto da un uomo in età avanzata, che purtroppo non riuscirà mai a vederne l'adattamento filmico, morendo nel '59.
Il confronto con un soggetto dato, declinato su di un mezzo espressivo antitetico a quello filmico, eppure da lui intimamente amato, gli permette di dar forma ad una sua risalente teoria, basata sulla polemica contro le forme di adattamento da libro a film che venivano effettuate in Francia, accusate di snaturare e tagliare con l'accetta i contenuti in favore del minutaggio. Il risultato è, ancora una volta, una forma filmica nuova, non un semplice ibrido tra narrazione filmata e scritta, quanto una totale fusione dei due registri.




La narrazione orchestrata da Truffaut si compone indissolubilmente dell'immagine e della voce narrante. I dialoghi, pur presenti, sovente cedono il passo alla descrizione off, che come un bisturi si insinua nella mente dei personaggi per portarne alla luce stati d'animo, impressioni e sensazioni. Da sola, la voce narrante è inutile, così come le sole immagini non riuscirebbero a restituire un quadro completo dei tre complessi protagonisti. La struttura espressiva propria del romanzo viene, in pratica, applicata al cinema: laddove servirebbero descrizioni di ambienti e personaggi, vi sono le immagini, mentre per il resto la voce off aggiunge svolge un lavoro di narrazione primaria.
Cambio linguistico che si riverbera anche nella messa in scena. I primi piani sono pochi, abbondano i campi medi e lunghi, grande enfasi viene posta sulla singola inquadratura piuttosto che sulla costruzione dell'intera scena. Il montaggio diviene un mero assemblaggio di immagini dove è la visione di insieme a contare, per meglio privilegiare il tema del "trio".






Laddove Roché poneva l'amicizia tra il tedesco Jules ed il francese Jim al centro di tutta la prima parte del suo scritto, Truffaut effettua un'opera di sintesi per presentarli in modo altrettanto efficace: Jules (Oskar Werner) e Jim (Henri Serre) sono due giovani intellettuali della Belle Epoque, le cui "affinità elettive" cementificano un sodalizio umano connotato dal rispetto profondo e dalla comunanza di gusti ed interessi. Più vicino alla sensibilità dell'autore è il rapporto con la donna "che inventò l'amore", Catherine, che ha il volto sensuale e volitivo di un'affascinante Jeanne Moreau. Se è il trio ad essere costantemente al centro della narrazione, Catherine è il fulcro, il polo che muove, idealmente e fisicamente, i due uomini da un capo all'altro dell'universo.





Catherine è l'emblema stesso della donna truffautiana, non troppo dissimile dalla terribile Signora Doinel de "I 400 Colpi": una donna dalla bellezza irresistibile ed un pò fredda, prigioniera dei suoi stessi capricci e della sua incapacità di scelta. Lei, in particolare, figlia di due mondi, mezza inglese e mezza francese, mezza nobile e mezza popolana, che entra in scena come una dama solo per svelarsi subito dopo come una bohemien incallita. Una donna incredibilmente volitiva, gelosa, egoista: un tempio di bellezza che plasma le sue forme nel marmo (le labbra della Moreau, sensualissime, riprese nella antica statua che i due amici visitano in Grecia), i cui lineamenti vengono scolpiti nei fotogrammi con l'uso (geniale) di piccoli freeze-frame per trasformala in una visione perennemente sensuale. Un tempio che cela la totale incapacità di relazionarsi con il partner: la coppia non è il miglior strumento per vivere l'amore, la fedeltà nel rapporto è univoca; Catherine vede la fedigrafia come una forma di affermazione individuale, non un semplice escapismo dalla monotonia, quanto il mezzo per una costante ed indomabile ricerca del piacere amoroso, non strettamente fisico e, sopratutto, dell'attenzione da parte del partner.
Libertinaggio, il suo, ammantato da un velo di spietata ipocrisia: una delle sue "scappatelle" con l'amico Albert (Serge Rezvani) viene ingenerata dalla paura di un possibile tradimento di Jim; una incapacità di affidamento nelle relazioni che non può che sfociare nell'omicidio: l'unione suprema ed indissolubile avviene solo nella morte, in quell'ultima scena con la cremazione dei corpi come unico possibile mezzo per sublimare la relazione che un personaggio volitivo ed infido può conoscere. Personaggio cui Truffaut guarda con uno sguardo ambivalente: ne celebra la forza umana e caratteriale (contrapposta a quella dei più bonari Jules e Jim), ma ne condanna in modo velato, mediante le accuse di Jim, l'incapacità di stabilizzarsi persino in un rapporto moderno ed aperto.





Oltre alla creazione di un nuovo registro narrativo, Truffaut compie un altro piccolo miracolo nell'accostarsi alle pagine di Roché: la materia "scandalosa" viene letta in modo leggero, quasi spensierato. Non c'è voglia di stupire o spiazzare il pubblico benpensante, di scandalizzare la censura mediante una storia che non condanna il libertinaggio. L'enfasi non viene mai posta sulla "immoralità" dei tre personaggi, quanto sul caos amoroso che le loro azioni generano. Così come l'infanzia difficile de "I 400 Colpi", anche l'amore a tre viene trattato con garbo, quasi ironia, prova di una mentalità non solo moderna, ma ai limiti del geniale.

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