lunedì 8 maggio 2017

Knight of Cups

di Terrence Malick.

con: Christian Bale, Natalie Portman, Cate Blanchett, Antonio Banderas, Isabel Lucas, Armin Mueller-Sthal, Wes Bentley, Imogen Poots, Teresa Palmer, Freida Pinto, Brian Dennehy, Cherry Jones.

Usa 2015
















Dopo il fiasco (in tutti i sensi) che fu "To the Wonder". era facile immaginare per Malick la fine della carriera o, quanto meno, un'inversione radicale del suo modo di intendere il linguaggio filmico.
"Knights of Cups" è invece la continuazione perfetta di quella meditazione (esistenziale ed estetica) iniziata con lo splendido "The Tree of Life", che quasi scavalca la malriuscita parentesi intimista del suo predecessore per riallacciarsi alla fusione tra ricerca interiore e riflessione universale alla base di quel pluripremiato exploit che nel 2011 rilanciò carriera e nome del suo autore.



Ma ancora di più, "Knight of Cups" è una forma di affinamento di quello stile personale che ora si avvicina ancora più prepotentemente al passato, ai dettami di quella Nouvelle Vague che da sempre ha esercitato una forte pressione sul cineasta dell'Illinois; in particolare, Malick si avvicina alle sperimentazioni di Jean-Luc Godard: niente script, solo idee alla base di una storia e di un personaggio. L'improvvisazione delle scene è talvolta totale, con gli attori letteralmente gettati addosso al protagonista, Chistian Bale, per suscitarne la viva reazione, ed una macchina da presa che scruta ogni singolo ambiente, ogni azione dei personaggi che segue in inquadrature libere e lunghissime, piani sequenza infiniti che poi vengono spezzettati in singole inquadrature.
Una messa in scena che si fa pura libertà e nella quale il racconto finisce per annullarsi, farsi pura immagine, flusso di coscienza ancora più denso e fluido che in passato; storia, storie e personaggi vengono così ad esistenza in un secondo momento, in fase di montaggio; tant'è che, girato assieme al successivo "Song to Song", "Knight of Cups" è rimasto in sala montaggio per quasi quattro anni. E a differenza di "To the Wonder" questa volta il risultato può dirsi quanto meno riuscito.



Quello di Malick per il tramite del suo protagonista, Rick, è il viaggio del pellegrino così come immaginato e descritto da John Bunyan in "The Pilgrim's Progress", citato sin dai titoli di testa e i cui passaggi sono più volte ripresi durante la narrazione; testo fondamentale della letteratura del Cristianesimo Riformato, che nelle mani dell'autore si fa sentiero da percorrere fisicamente e visivamente.
Rick, personaggio nel quale Bale letteralmente si perde, è un uomo che attraversa il mondo in uno stato di incoscienza, come sospeso tra il reale ed il sogno. Mai vero centro narrativo è più che altro un oggetto intorno al quale gravitano mondi e personaggi.
Il suo mestiere di attore chiarisce immediatamente il suo ruolo: un'anima persa, priva di un'identità propria, che scappa di ruolo in ruolo così come fugge da persona a persona. Il suo "viaggio del pellegrino" è giustapposto alla favola del "knight of cups" del titolo: un cavaliere d'Oriente mandato dal padre in Egitto per trovare una rara e preziosa perla, ma che giunto a destinazione cade vittima di un sortilegio, addormentandosi e dimenticando la sua ricerca.
Allo stesso modo, Rick tende perennemente verso un Assoluto, quel Paradiso di Bunyan, quel Totale che Malick contempla perennemente. Ma il suo viaggio è costellato di insidie, incontri che potrebbero portare a risoluzione ma che volutamente evita, scontri con il passato. Da qui un senso di perdizione, di dissociazione e spaesamento che attraversa tutta l'opera.



E' l'universo familiare a divenire doppione e paradigma della ricerca umana, come già accadeva in "The Tree of Life"; anche qui c'è un nucleo familiare esploso a causa della morte di un figlio, ma questa volta non è Rick ad essere il padre chiamato a riflettere. La figura paterna, incarnata da un Brian Dennhey vecchio e sfatto, perfetto e sorprendente, è un relitto, un uomo che ha vissuto per i suoi figli e che ora vaga tra le macerie di una vita in frantumi.
Rick, dal canto suo, vive tra le reminiscenze che hanno portato alla distruzione, vaga in una vita vacua e cerca spaesato e quasi inconcludente una soluzione al suo vuoto. Soluzione che sembra risiedere nella creazione di un nuovo nucleo familiare: la paternità, talvolta agognata, molto spesso temuta, sembra essere l'unico punto di approdo possibile.



Da qui il rimpianto per la rottura con la precedente moglie, Cate Blanchett, che a differenza sua ha trovato una ragione d'essere nell'aiutare il prossimo come dottore. E, di conseguenza, il costante inseguimento di una figura femminile che ha differenti volti e forme. La compagna ideale incarnata da Natalie Portman, la cui risoluzione finale sfugge a causa di un pentimento; la compagna anch'essa spaesata e libera che ha il volto di Imogen Poots; l'incantevole Freida Pinto; l'affabulatrice Teresa Palmer e così via.




Il tragitto ha le forme di una terra desolata, eppure scintillante, quella L.A. nel quale si muovono il giro della moda e del cinema, della fotografia e della pubbliciità; ma Rick cammina tra scenografie vuote, strade che separano i vari set desolate, attraversa le feste come un fantasma, incontra personaggi famosi ed anfitrioni illustri che non fanno altro che allontanarlo dalla ricerca. I camei si sprecano: da Antonio Banderas nei panni del pigmalione a Jason Clarke in quelli dell'amico strafottente, passando per Ryan O'Neil, Joe Manganiello, Fabio, Danny Strong e Dane De Haan.
Ma ad un passo dal glamur e dalle luci, vi è un mondo in rovina, popolato da reietti che vivono in pieno giorno, vere terre desolate consumate dai peccati, case diroccate e terrazzi infestati dalla ruggine che racchiudono vite distrutte, consunte. Malick insiste come non mai nella desolazione, nella rovina terrestre della città contrapposta all'immensità degli spazi del deserto e dell'oceano, a quel Fine irraggiungibile eppure lì a portata di mano.



E la sua ricerca è ammaliante, strutturata in immagini semplicemente accecanti. L'uso del grandangolo per ogni inquadratura gli permette di racchiudere i personaggi dentro gli ambienti, facendoli stritolare dalle mura o perderli negli orizzonti.
Laddove esagera, è nel compiacimento per ogni singola immagine, per ogni singola linea di dialogo, per ogni piccola riflessione. Malick carica di enfasi tutto alla spasmodica ricerca di una poesia perenne, cerca di evocare sensazioni, sentimenti e riflessioni in ogni singola immagine, senza sosta e senza tregua. Finendo talvolta nel barocco più ridondante e pesante.



Eppure, tra un passaggio di puro lirismo emozionante e sequenze inutili, riesce davvero a creare un "pellegrinaggio" convincente, a dare forma compiuta al suo pensiero senza essere troppo tedioso, né troppo compiaciuto.

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