giovedì 1 giugno 2017

Il Bandito delle 11

Pierrot le Fou

di Jean-Luc Godard.

con: Jean-Paul Belmondo, Anna Karina, Graziella Galvani, Samuel Fuller.

Francia, Italia 1965
















"Che cos'è il cinema?".
"Il cinema è un campo di battaglia: c'è l'amore, l'odio, azione, violenza, morte... in una parola: emozione!".
In questo scambio di battute è racchiuso il cuore di "Pierrot le Fou" (il pessimo titolo italiano non va a parare da nessuna parte e va di pari passo con la pessima distribuzione, che ne ha sforbiciato qua e là la durata); non è un caso che Godard affidi tali parole a Samuel Fuller, colui che assieme a Nicolas Ray e Alfred Hitchcock era il più riverito cineasta della scena americana per i "giovani turchi".
Perché "Pierrot le Fou" è un caleidoscopio di idee, ispirazioni, trovate, sensi e controsensi che si susseguono nei 105 minuti di durata, un gioiello di arte cinematografica (o di arte tout court?) nel quale ad imperare è solo la smania creativa del suo autore. E per comprenderlo e bene tenere a mente un particolare: Godard lo ha concepito in uno dei periodi più bui della sua esistenza.




L'ispirazione forse stava svanendo; l'amore di Anna Karina, qui alla sua ultima collaborazione, era giunto all'epilogo. Quell'America tanto riverita, prima come nazione salvatrice dal Nazifascismo, poi creatrice delle opere più amate, si è trasformata in un tiranno imperialista ed ha smesso di creare vera arte a 24 fotogrammi al secondo. In "Pierrot le Fou" ci sono un sentimento ed un concetto che strisciano al di sotto di tutte le immagini e le parole: la morte, la fine di ogni cosa, l'esistenza che giunge ad una fine vanagloriosa e nullificatrice. Tant'è che lo stesso Ferdinand alla fine si suicida in un modo strambo, facendo la figura del fesso e solo dopo aver ucciso la sua Marienne. Così come lo strambo nano fa "una fine più grande di lui"; o come il cadavere che in una delle prime scena sembra non essere visto dai personaggi, con Marianne che addirittura canta spensierata passandovi affianco.
Marienne stessa è forza disgregata e disgragatrice sin dal nome: "Marienne" che suona come "Mà Rien", "la mia niente", ossia un personaggio che porta solo verso un nulla totale, un'eternità evocata tra il cielo ed mare che però non ha sostanza alcuna.




Una fine nella quale Godard fa confluire tutto quello che era stato il suo cinema sino ad allora: c'è Belmondo nei panni di un furfante come in "A' Boute de Souffle", c'è la Karina in un ruolo brillante, che si concede persino al canto stile vecchia Hollywood come in "La Donna è Donna", c'è una divisione in capitoli come in "Questa è la mia vita", anche se qui sono prontamente scompaginati. E ci sono i colori vivi e sgargianti, quel technicolor dipinto di pastose tinte primarie, un pò come in "La Donna è Donna", sopratutto come in alcune immagini di "Le Mépris". Il tutto per chiudere con un botto una fase, una riflessione che in realtà non trova chiusa e che a partire dal film successivo "Due o Tre cose che so su di lei" diverrà ancora più spasmodica, per poi affiancarsi ad una profonda riflessione politica a partire da "La Cinese" e che qui ogni tanto fuoriesce in nuce, come nella gag dello scontro tra il marinaio americano e la vietkong.




"Pierrot le Fou" è così pura sperimentazione, flusso costante di ispirazione che si posa quasi di sua spontanea volontà tra i quadri d'arte moderna o i romanzi d'appendice. Al centro, due personaggi scapestrati ed improbabili, due amanti in una fuga d'amore dove l'amore resta sempre tra le righe; ed una sottotrama noir talmente bislacca da divenire parodia.
Ciò che conta è la distruzione, lo sfascio di quella codificazione linguistica tanto odiata e che qui si fa più che mai viva e cosciente, con Ferdinand/Pierrot che interloquisce con il pubblico e Marianne che ne ricambia lo sguardo. Ogni istanza creativa viene assecondata ed il cinema finisce così per vivere di opposti inconciliabili che si incontrano, trovate strampalate che si fanno arte, comparsate che divengono metafore, singole scene che si fanno interi racconti.




Come Marianne recita i suoi versi, "Pierrot è bello e brutto, [...] è notturno e diurno [...]" così il film è al contempo frutto di feconda ponderazione e lascito alla superficialità più svogliata. Tutto ha un senso e nulla ce l'ha: il significante trionfa, diviene significato e l'urgenza di narrare qualcosa che sia qualcosa per il gusto di esserlo si fa prepotente e racconto a sé.
Largo dunque a comparse "d'autore": oltre a Fueller, giocoforza il più importante, ecco comparire dal nulla Jean-Pierre Léud che guarda i cinegiornali sul Vietnam, la vera Aicha Abidi recitare nei panni della parodia di sé stessa rifugiatasi sulla Costa Azzurra o il comico Raymond Devos che compare come un doppio di Feridnand che afferma di sentire una musica, ossia di percepire la musica del montaggio.




Montaggio che ora si fa arma suprema di ri-costruzione del significato: nulla è lineare, neanche nelle scene girate in piano sequenza, dove la musica viene intercalata al sonoro in presa diretta per spezzare l'unità tra visto e sentito. La giustapposizione è l'arma che Godard usa per dar vita alla sua ossessione e che lo porta a frammentare le sequenze, spappolarle in singole inquadrature per dar loro significati diversi, multipli o vacui a seconda dei casi.




"Pierrot le Fou" è in fondo questo: distruzione e sperimentazione, "sturm und drang" personalissimo ammantato in immagini dalla bellezza pittorica quasi inusitata (seconde solo a quelle ancora più perfette di "Le Mépris"), sfida suprema al linguaggio e prima vittoria, anche se non definitiva.
Un film che è puro sbeffeggio delle scontante convenzioni e per questo arte allo stato genuino.

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