sabato 7 ottobre 2017

Blade Runner 2049

di Denis Villeneuve.

con: Ryan Gosling, Harrison Ford, Jared Leto, Robin Wright, Sylvia Hoeks, Dave Bautista, Ana De Armas, Edward James Olmos, Mackenzie Davis, Hiam Abbass.

Fantascienza

Usa, Inghilterra, Canada 2017

















---CONTIENE SPOILER---


Era davvero necessario? "Blade Runner", il capolavoro di Ridley Scott, l'epinomo di film cult e di fantascienza post-moderna, l'apripista del filone cyberpunk al cinema (e non solo), la pellicola più influente ed importante degli ultimi 40 anni necessitava davvero di un seguito? Per di più prodotto a 35 anni dalla sua uscita in sala?
Ovviamente no. I motivi che hanno portato alla produzione di questo "Blade Runner 2049" sono come sempre strettamente commerciali: rivendere un marchio che nel corso degli anni è divenuto sinonimo di successo, grazie alla riscoperta di un film che fu flop solo alla sua uscita in sala.
Continuare una storia come quella di Deckard, Rachel e Roy Batty non aveva senso; anzi, era del tutto superfluo: tutto finiva in quel duplice (o triplice, a seconda delle versioni) finale, con il rude detective e la bella replicante che fuggivano dall'incubo metropolitano, verso un futuro incerto ma verde.
35 anni dopo, arriva nelle sale un sequel ambientato 30 anni dopo, dove quel mondo fatto di torri di metallo fiammeggianti, ziggurat futuribili, auto volanti ed esseri artificiali più umani dell'umano ha subito anch'esso una metamorfosi, non è rimasto cristallizzato in sé stesso, si è evoluto, forse.
Una nuova visione creata per far soldi, ma partorita da menti di indubbio talento. La Sony ha voluto di certo fare le cose in grande, non limitarsi ad un semplice revival nostalgico stile "Il Risveglio della Forza"; ecco dunque tornare Hampton Fancher in veste di sceneggiatore, ma purtroppo non David Webb Peoples, vero padre putativo dello script del primo film; così come ritorna Ridley Scott nelle vesti di solo produttore, il che è un bene, data la sua triste caduta in disgrazia. Al posto della fotografia di Jordan Cronenwerth, quella di Roger Deakins, al solito magistrale. Ed in cabina di regia niente meno che Denis Villeneuve, ossia uno dei cineasti più sorprendenti e visionari degli ultimi anni. Tutti impegnati in un compito ai limiti dell'impossibile: creare un prodotto che sia anche un'opera; sopratutto, un'opera degna dell'originale. Compito che risulta compiuto: Villeneuve è riuscito ha fare sua l'idea di base, a creare un film spettacolare ed intrigante; ma che, come intuibile, non ha il peso né la raffinatezza del suo inarrivabile modello.




2049; sono passati 30 anni da quando Deckard (Harrison Ford) e la replicante Rachel (Sean Young) sono fuggiti dalla megalopoli di Los Angeles. Nel frattempo tutto è cambiato; la produzione dei replicanti si è perfezionata: il nuovo modello Nexus 8 è dotato di una longevità indefinita; il confine tra l'umano e l'artificiale tende così sempre più a scomparire. Ma l'uomo non può sopportare di essere soppiantato dalla nuova umanità: feroci rivolte portano al divieto di creazione di nuovi replicanti, mentre un gigantesco blackout cancella tutte le informazioni virtuali, facendo scomparire i registri contenenti le identità dei sintetici. Il lavoro dei Blade Runner diviene così ancora più necessario.
La Tyrell Corporation, fallita dopo il bando dei replicanti, viene acquisita da Niander Wallace (Jared Leto), il quale convince le autorità a riprendere la produzione grazie ad un nuovo modello di androide, privo di vero libero arbitrio. Il ritiro dei vecchi modelli, ancora in fuga, diviene così un imperativo categorico.
Il Blade Runner K (Ryan Gosling), un replicante cosciente della propria natura sintetica, rintraccia nell'entroterra californiano Sutter Morton (Dave Bautista), uno degli ultimi Nexus 8 rimasti e, dopo una feroce battaglia, lo "ritira". Ma Morton nasconde uno scioccante segreto: le ossa di un vecchio replicante che sembra sia riuscito a generare la vita, a riprodursi come un essere vivente vero e proprio.




L'esistenzialismo dell'opera di Scott cede il passo a nuove tematiche. Prima fra tutte la questione identitaria, il concetto di reale e la differenza con il virtuale; il che, paradossalmente, rende "2049" più vicino alla letteratura di Philip K. Dick del suo predecessore.
Centro nevralgico, non solo della storia, è K (forse così chiamato proprio in omaggio al padre putativo del film), personaggio che è una sorta di "altra faccia" di Rachel: un replicante cosciente della propria natura, che ha un'identità definita data, appunto, dalla coscienza della sua non-esistenza. Tutto, nella vita di K, è fasullo, artefatto, privo di fondamento; un androide che per vivere uccide i suoi simili, ossia distrugge la sua stessa natura, come in un rifiuto del sé che però lo caratterizza come individuo. Un uomo che cela i propri sentimenti, li inabissa in un subconscio che si rivela solo dinanzi ad un altro essere, Joi (la bellissima Ana De Armas); ma Joy è un non-essere, un'intelligenza artificiale che ha un corpo olografico, ossia un essere puramente virtuale; laddove i replicanti sono esseri artificiali più autentici dei loro creatori, le I.A. altro non sono che un puro vezzo, creature messe al mondo e programmate per vendere l'illusione di un'emozione. L'amore di Joy (al pari di quello di un'altra I.A. del recente cinema americano, la Samantha di "Her") non è che un riflesso condizionato, un vero e proprio videogioco nel quale agli imput del giocatore corrisponde una reazione vera solo in apparenza.
La crisi identitaria di K viene innescata quando in lui si fa strada il sospetto di non essere un artificiale, quando si affaccia la possibilità che quei ricordi che lui sa essere artefatti potrebbero essere reali: un'identità vacua, fasulla e puramente apparente è pur sempre un'identità; il sospetto di essere qualcosa di reale, non creato, ingenera quella crisi del sé provata dalla stessa Rachel, anche se in termini opposti.




Il viaggio di K è quello di un essere che cerca le risposte più basiche, al pari di quello di Roy Batty; non tanto il "quanto mi resta?", ma il più angosciante "chi sono?" in un mondo dove davvero nulla è ciò che sembra.
Un mondo dove la perfezione tecnica nella riproduzione dell'essere artificiale è ad un passo dal compimento. Come già affermava Mamoru Oshii in un altro dei figli del capolavoro di Scott, "Ghost in the Shell", i tratti caratteriali di un vero essere vivente sono la capacità di riprodursi e morire; ed il replicante ora può riprodursi, forse.
Ma il mondo di "Blade Runner" è pur sempre quello in cui l'essere umano ambisce a divenire un dio in Terra. Ecco dunque Niander Wallace, erede del pontefice Tyrell, caratterizzato come un profeta della conquista, cieco come Tiresia ma dotato di mille occhi, che letteralmente cammina sulle acque come un Cristo che non predica il perdono e la fratellanza, ma il dominio. Laddove la nuova umanità vuole divenire uguale ai creatori, i creatori vogliono letteralmente ascendere al cielo. E per farlo necessitano di quella forza lavoro più forte e resistente, di quei figli creati solo per essere sfruttati.
Una figura paterna, quella di Wallace, che fa del dominio totale il suo scopo; e che trova in un invecchiato Deckard il suo controaltare: colui che, invece, ha deciso di prendere l'esilio, di perdersi nel deserto in totale solitudine per difendere ciò che a lui è più caro.




Tre uomini, un padre, un creatore ed una duplice figura filiale sfuggente, che cercano un futuro. Intorno a loro, sopratutto intorno a K, ruotano invece solo figure femminili; la donna in tutte le sue vesti: la madre, ossia Rachel, l'amante putativa, Joy, la vera amante e figura quasi salvifica, la bella replicante Mariette (Mackenzie Davis) o la venere distruttrice Luv (Sylvia Hoeks), tutti volti diversi di una stessa donna, sia essa generatrice di vita che portatrice di morte, in un viaggio dove la creazione della vita e la scoperta di sé stessi sono l'obiettivo finale.





L'universo di "2049" è al contempo uguale e diverso a quello di "Blade Runner"; sia Villeneuve che Roger Deakins, coadiuvati tra gli altri da Dennis Gassner e Paul Inglis, riescono a creare immagini di un mondo che non è la fotocopia dell'originale, ma vive di vita propria pur essendo con esso in perfetta continuità. Laddove Scott e Syd Mead creavano un mondo barocco e post-moderno, fondendo visioni futuristiche avanguardiste con reminiscenze art nuveau degli anni '30 e '40, Villenuve, opta per un'estetica più sottile: gli interni non grondano di dettagli, ma sono spesso vuoti, essenziali e freddi nelle loro linee parallele che creano una profondità di immagine talvolta sbalorditiva; a farla da padrone è l'oscurità, lo spazio negativo dato dal buio o dal vuoto, illuminato da neon ed ologrammi in esterni; mentre negli interni, i forti contrasti da film noir cedono il posto a luci diffuse e fredde, per creare ambienti alienanti persino quando si tratta di una zona sicura come l'appartamento di K o il rifugio di Deckard.
La forza delle immagini è incredibile; Villeneuve e Deakins riescono a creare in ogni singola inquadratura veri e propri quadri in movimento, nei quali l'estetica data dalle scenografie si fonde perfettamente con le scelte cromatiche, merito anche dell'uso di effetti speciali per lo più analogici, con miniature e props al posto dei soliti green-screen. La metropoli di "2049" è un incubo ancora più cupo di quella del 2019, dove le tenebre hanno ammantato la maggior parte delle infinite strade; mentre una Las Vegas post-atomica è immersa in un crepuscolo perenne ed ornata con ciclopiche statue femminili, un deserto dove forse è tornata la vita e dove la luce calda potrebbe al contempo essere quella dell'alba.





Nel raccontare la storia di K, Villeneuve sceglie uno stile più diretto rispetto a quanto fatto da Scott; "Blade Runner" era narrazione classica, di stampo noir, che al contempo declinava le tematiche identitarie ed esistenzialistiche mediante una forma narrativa totalmente visiva, fatta di simboli e metafore; una narrazione complessa e profonda, che grazie alla forza delle immagini e alla carica drammatica riusciva ad imprimersi a fuoco nella mente dello spettatore.
"2049", d'altro canto, è un'opera più diretta e semplice, priva della profondità anche filosofica del modello di riferimento; tutta la narrazione è secca, non ci sono simbolismi, né allegorie, tutto inizia e finisce con i personaggi e le loro interazioni; nulla viene aggiunto a quanto fatto da Scott, persino la questione sulla vera identità di Deckard viene coscientemente ignorata, né è possibile una duplice o triplice lettura del personaggio di K; così come anche tutti i personaggi secondari sono quasi esclusivamente al servizio della storia. Manca, in sostanza, quella visione stratificata che fa la differenza tra un ottimo film di fantascienza ed un'opera d'arte completa. Ed è in questo che il paragone con l'originale risulta davvero ingeneroso.




Ma a Villeneuve va lo stesso riconosciuto il merito di aver creato un sequel che si riaggancia perfettamente al modello, che non si limita ad esserne una replica, ma che ha una propria identità forte; una pellicola di fantascienza dove il registro di genere viene spesso lasciato da parte per dar spazio ai personaggi, che intrattiene con la forza delle immagini, che non annoia mai davvero nonostante qualche lungaggine inutile ed una durata pachidermica che, se accorciata in sede di montaggio, non avrebbe fatto altro che giovare all'intera esperienza.
"Blade Runner 2049" non ha e non vuole avere né la profondità, nè la complessità estetica di "Blade Runner"; vuole essere un'opera a sè pur se derivata da un'altra fonte. Ed in questo risulta perfettamente riuscita.

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