lunedì 18 dicembre 2017

Nouvelle Vague

di Jean-Luc Godard.

con: Alain Delon, Domiziana Giordano, Jacques Dacqumine, Christophe Odent, Roland Amstutz, Joe Sheridan.

Francia 1990




















Nel più puro stile godardinao, la debacle di "Re Lear" è al contempo incidente di percorso e prima tappa di un nuovo corso della sua riflessione, che si farà presto più chiusa in sè, più criptica, più genuinamente "pesante"; un cinema d'autore che diverrà alienante ed ostico, ossia quanto di peggio possa esserci per pellicole del genere.
Ma nel 1990, con "Nouvelle Vague", Godard crea un'opera, si, ostica, ma anche decisamente riuscita, una vera e propria isola all'interno di uno strambo mare; con un titolo che richiama la propria azione, è un film complesso, fatto di tutto e di niente, di opposti talvolta inconciliabili, talvolta complementari, di estremi e doppi.




La Nouvelle Vague è distruzione e rigenerazione, "Nouvelle Vague" è la storia di un doppio, anzi di due; in primis il Cinema e, con esso, l'arte e la filosofia, doppi tra di loro e doppioni della vita, che cercano di ritrarre, analizzare, contestualizzare fino a trovarne (invano) un senso; in secundis, il doppio personaggio di Alain Delon, chiamato "Lennox", una delle infinite citazioni cosparse in ogni singolo fotogramma. Personaggio senza passato, che la Contessa (Domiziana Giordano) incontra per caso e decide di tenere con sè; una persona, lui, passiva, di estrazione popolare, perennemente accigliata, sino alla sua morte, o meglio alla sua uccisione da parte di quella volitiva creatura che lo ha letteralmente concupito.
Da qui, Lennox rinasce: un suo gemello spunta dal nulla, si insinua nella casa che lo aveva ospitato e la conquista; un doppio opposto al primo: un carnefice industrial-borghese, amante volitivo e dall'indole impervia.




Lennox come il cinema: il cinema dei padri, ormai moribondo, quello dei Giovani Turchi, vivace e compiaciuto.
O forse no. Forse Godard non vuole narrare una metafora sul cinema. Le parole che aprono il film sono "Volevo solo fare un racconto [...]", confessione della sua incapacità di narrare qualcosa in modo diretto. Da qui la necessità dell'uso di uno stile anticonformista ed erudito, ossia quello stile personale che già a partire dal 1960 ha ridefinito la grammatica filmica; stile che qui si sostanzia in un montaggio spezzato e frammentato, nei ritrovati movimenti di macchina fluidi e nell'uso massiccio di dialoghi estrapolati da opere letterarie e filosofiche. Il numero degli autori ripresi è impressionante, sia per quantità che per eterogeneità: Hammett, Newton, Mallarmet, Paolo Conte, Luis Bunel, Dante, la Bibbia, Marx, Dostojewskij, Schiller... impossibile individuarli tutti; ogni linea di dialogo, o quasi, è forma metatestuale che viene incardinata all'interno della narrazione per farsi, nuovamente, metanarrazione, nel senso di una narrazione aliena dal contesto delle immagini, eppure in essa immersa, ovverosia un altro doppio.




Marasma stilistico nel quale Godard declina le sue passioni ed i suoi assilli, dal rapporto di coppia al cinema, dall'arte alla grammatica, passando per la politica, quelle macerie del '68 che porta in scena con distacco un pò polemico, in conformità al passato.
E tra le fredde pieghe delle sue elucubrazioni, il grande artista omaggia anche Tarkovskj, con un occhio posato su di una natura mai così bella, in immagini liriche di un mondo esterno ed estraneo ai conflitti interiori ed esteriori dell'uomo, pronto a ricordare allo spettatore ed allo stesso autore come la bellezza prosperi a prescindere da tutto e tutti.




Compiaciuto, ma bello, criptico ma riuscito, "Nouvelle Vague" è un maelstrom totalizzante ed annichilente, un flusso di coscienza privo di margini che trascina senza mai cadere a vuoto, prova di come Godard, per quanto fermo sulle sue posizioni e benchè lontano dai fati del passato, abbia ancora qualcosa da dire, sapendo anche perfettamente come.

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