mercoledì 27 marzo 2024

Aquaman e il Regno Perduto

Aquaman and the lost kingdom.

di James Wan.

con: Jason Momoa, Patrick Wilson, Yahya Abdul-Mateen II, Amber Heard, Nicole Kidman, Temuera Morrison, Randall Park, Dolph Lundgren, Martin Short, Jani Zhao, Pilou Asbæk, Indya Moore, Vincent Regan, John Rhys-Davies.

Fantastico/Avventura

Usa, Regno Unito, Canada, Australia, Islanda 2023










Con un budget di oltre 205 milioni di dollari e un incasso di circa 430 milioni, "Aquaman e il Regno Perduto" è stato un mezzo flop e rappresenta l'ultimo tonfo della DC Warner, l'ennesima delusione commerciale per il cinema di supereroi, nonché la pietra tombale del DCEU. 
Un progetto cinematografico, quello dell'universo DC, nato praticamente morto, senza un piano programmatico che fosse uno (a differenza di quello fin troppo stringente dei rivali della Marvel Studios), con una visione artistica ad opera di Zack Snyder che, per quanto fallata fosse, almeno era una, ma mandata subito alle ortiche dalle politiche dei produttori, spaventati per i folli investimenti richiesti. Con l'esito di una stringa di film che non sono mai davvero riusciti a sfruttare appieno il potenziale di un roaster di personaggi dalla caratura mitologica.
E proprio come "The Flash", anche "Aquaman e il Regno Perduto" è una pietra tombale intagliata, reintagliata e re-reintagliata più e più volte in forza della mancanza di direzione generale del DCEU, mandata poi anch'essa a morire al botteghino in un periodo nel quale gli occhi sono tutti puntati sui futuri progetti targati James Gunn; e che ha finito per raggranellare qualcosa solo grazie alla simpatia suscitata al pubblico cinese, che lo ha ampiamente e a sorpresa premiato.




Come film, questo sequel di quel successo a sorpresa che fu il primo exploit sull'uomo-pesce di casa DC alla fine non è neanche più di tanto disprezzabile. Non è una catastrofe inguardabile come "The Marvels" e "Madame Web", né un filmetto vuoto e tirato su alla bene e meglio come "Blue Beetle" e "Shazam- Furia degli Dei". E', in tutto e per tutto, una sorta di prosecuzione di quanto fatto in precedenza, con James Wan che alza il tiro bene o male su tutto.
Torna la struttura da film d'avventura d'antan, con una serie di scenari nei quali Aquaman e soci si perdono all'inseguimento del mcguffin di turno, un nuovo tridente, questa volta nero. Torna il gusto per la creazione di un mondo nel mondo colorato e ameno, ancora più sfaccettato che prima e più vivo di quanto il Reame Quantico dei rivali sia stato. E torna l'umorismo di grana grossa, con Arthur Curry che da simpatico buzzurro ora diventa un vero e proprio cazzone a ruota libera. Tutto è come prima, ma più grande e eccessivo, a parte gli effetti speciali, che, come per l'exploit sul Velocista Scarlatto, sono scialbi, palesemente falsi, forse anche qui colpa di una post-produzione tagliata di netto.




A rendere la visione piacevole sono così il cast, sempre affiatato, e soprattutto la passione di Wan, che struttura buona parte del film come un vecchio film d'avventura britannico degli anni '70, con tanto di visita sull'isola con gli animali giganti; e infarcisce il tutto con un simpatico gusto per la citazione cinefila, con il look della nave e dell'equipaggio di Black Mantha che riprende quello, ancora oggi notevole, del mai dimenticato "Terrore nello Spazio" e quel simpatico easter-egg da "The Texas Chainsaw Massacre" quando il dottor Shin fotografa il cadavere ibernato.
La storia alla fine vuole anche dare un messaggio ecologista (forse per farsi scusare la figuraccia fatta con il primo film, dove Orm voleva punire gli umani per aver inquinato gli oceani, ma finiva castigato e gli uomini potevano tornare a sversare spazzatura indisturbati) e bene o male ci riesce anche; così come tutto sommato riuscito è il tema della fraternità, con Arthur e Orm che nella migliore tradizione diventano amici... con tanto di rimando esplicito a Thor e Loki.




Alla fine tutto bene o male funziona e la durata non eccessiva rende il film digeribile. Ma si tratta pur sempre di una portata dal sapore quasi insipido, nulla più di un piatto da fast-food da consumare velocemente per poi passare a fare di meglio. Nulla che il cinema commerciale americano non abbia mai fatto, persino con risultati peggiori, ma davvero troppo poco per suscitare davvero enstusiasmo.
Tanto che forse l'opera di ristrutturazione con preventivo abbattimento totale effettuata da Gunn ha anche motivo di esistere. Forse è ora di ripensare il cinema dei supereroi facendolo tornare alle ambizioni che aveva cinquant'anni fa. E si spera che questa volta si riesca a fare di meglio di quanto fatto con il DCEU.

lunedì 25 marzo 2024

Il Maestro di Vigevano

di Elio Petri.

con: Alberto Sordi, Claire Bloom, Vito De Taranto, Ya Doucheskaya, Guido Spadea, Eva Magni, Piero Mazzarella, Lilla Ferrante, Anna Carena, Ezio Sancrotti, Gustavo D'Arpe.

Commedia nera

Italia 1963
















La percezione che si ha, soprattutto oggi, di Elio Petri come di un cineasta ribelle e anticonformista porta a dimenticare come anche lui, per forza di cose, fosse inserito all'interno del sistema produttivo cinematografico italiano. Un sistema all'epoca fortemente sviluppato e che puntava sovente a pellicole (quantomeno entrate in produzione come) puri esercizi commerciali, dove il regista aveva un ruolo di mestierante.
E' il caso de "Il Maestro di Vigevano", sua opera firmata nel 1963 prodotta dal (futuro) tycoon Dino De Laurentiis, tratta da un omonimo romanzo che aveva venduto molto bene e con in prima fila la star Alberto Sordi. 
Petri dirige così un film su commissione che, tuttavia, del film su commissione non ha davvero nulla, se non il fatto che per lo script si sia affidato totalmente al mai troppo lodato duo Age & Scarpelli.




Nella Vigevano dei primi anni '60, il maestro elementare Antonio Mombelli (Sordi) conduce una vita agra, riuscendo a stento ad arrivare a fine mese. Vessato da un preside tirannico (Vito De Taranto) e da una moglie volitiva (Claire Bloom), cerca di cambiare vita avviando un'attività da piccolo artigiano, ma non tutto va come previsto.




Uno spaccato della vita ai tempi del "boom economico", "Il Maestro di Vigevano" posa lo sguardo non su chi si è arricchito, ma su coloro la cui vita non è migliorata a seguito della ripresa economica, anzi ha finito persino per peggiorare. Il ritratto è quello impietoso tipico della satira di costume dell'epoca (Sordi, giusto un paio di anni prima, era stato protagonista di un altro esponente del filone, il bel "Una Vita Difficile" di Risi), che Petri farcisce con il suo gusto per l'iperbole ed il surreale: le visioni di Mombelli e quel sogno delirante avvicinano il film a tanta sua produzione successiva, garantendogli una forma di originalità quanto meno nella messa in scena. 




Lo spaccato è quello dell'altra faccia del boom, si diceva, di coloro che sono rimasti ai margini. Mombelli ne è in tal senso l'archetipo: un uomo che ha intrapreso la carriera di maestro una ventina di anni prima ed è già alla soglia della pensione, si ritrova a fare i conti con un mestiere che gli dà a stento da vivere in una provinciucola dove tutti si sono arricchiti grazie all'avvento del lavoro in fabbrica.
In primis, nel ritrarre il lavoro del docente come afflitto dalle angherie di ignoranti prepotenti (in tal caso il preside) e caratterizzato da un trattamento economico da fame, Petri ha creato un'opera in senso lato eterna, visto che tali problematiche si sono trascinate fino ad oggi, periodo storico nel quale i dirigenti scolastici sono spesso degli ignoranti che abusano la propria posizione a sfregio e gli insegnanti, la cui preparazione richiesta è talvolta pari se non superiore a quella di un docente universitario, sopportano le angherie di bifolchi che arrivano anche a picchiargli (oggi i genitori degli alunni), oltre che ad essere costretti a esami di ogni di tipo per avere un posto fisso mal retribuito, nella vana speranza di un futuro miglioramento economico.




Mombelli è così la maschera di un italiano che pur intelligente e acculturato, finisce schiacciato da tutti in una società dove l'unico valore riconosciuto è la ricchezza, dove l'unico atteggiamento socialmente percepito è lo sfoggio della propria superiorità economica. E dove gli unici che arrivano sono (allora come oggi) solo quelli che viaggiano ai limiti dell'illegalità. 
Non per nulla, per lui il successo arriva solo quando inizia a usare pellame di contrabbando per la sua fabbrica e se ne va altrettanto velocemente a causa della sua stessa ingenuità. Petri alterna così uno sguardo sincero ad uno accusatore, lo guarda con empatia quando si ritrova alle strette e con biasimo quando inizia a far fortuna tramite la truffa. Il suo personaggio resta però sempre quello dell' "ultimo" anche quando si arricchisce per poco tempo, una vittima in un mondo dove esistono solo la sottomissione e l'umiliazione per chi cerca di rigare dritto.
Schiacciato com'è da una serie di figure autoritarie grottesche e deprecabili, Mombelli è una sorta di proto-Fantozzi che finisce per dare corpo a tutte le storture di una società gretta e ipocrita, nella quale i mostri hanno volti fin troppo umani: il rampante imprenditore Bugatti, tanto ricco quanto deprecabile, il preside che cela la propria ignoranza con atteggiamenti da comandante in capo da operetta, oltre che la bella moglie Ada, la cui voracità finisce per togliergli quel poco di stabilità che avrebbe potuto avere. Peggio di Mombelli c'è solo il collega Nanini, supplente che non riesce a trovare stabilità (altra tematica oggi ancora più drammatica rispetto a sessant'anni fa), la cui disgraziata esistenza lo porta a desiderare un impossibile ritorno alla natura.
E come per tutti gli ultimi, a Mombelli non resta che piegare il capo, sottomettersi all'autorità pur mal riconosciuta e mai digerita, al fine di mantenere quel poco di affermazione economica riuscita trovare in tanti anni.




Se lo sguardo di Petri è sagace e acuto, oltre che privo di compromessi, il ritratto è di fatto invecchiato, anche se, fortunatamente, solo in minima parte. A rivedere oggi quelle scene in cui Sordi fa di un dramma il fatto che la moglie e persino il figlio debbano lavorare non si può che sorridere amaramente; così come nel vedere la casa di Mombelli, che pur decadente è grande forse dieci volte quanto quella che un lavoratore "tartassato" odierno possa mai permettersi, prova di come la società italiana moderna si sia involuta in modo catastrofico.
Per il resto, "Il Maestro di Vigevano" è ancora oggi una visione intelligente e drammaticamente attuale di una società nella quale nulla davvero cambia per gli onesti.

venerdì 22 marzo 2024

Blue Beetle

di Angel Manuel Soto.

con: Xolo Maridueña, Bruna Marquezine, Becky G, Damiàn Alcàzar, George Lopez, Adriana Barraza, Belissa Ecobedo, Raul Max Trujillo, Elpidia Carrillo, Susan Sarandon.

Azione/Fantastico

Usa, Messico 2023












Proprio come con "Madame Web", anche con "Blue Beetle" viene da chiedersi se valesse davvero la pena di dedicare un intero film ad un personaggio del genere. Perché lo scarabeo blu di casa DC ha sicuramente avuto una vita editoriale migliore della veggente ragnesca (o anche solo una vita editoriale, punto) ed ha anche il suo seguito di aficionados, ma resta pur sempre un personaggio di terza categoria che, non per nulla, al di fuori dei fumetti ha sempre e solo avuto piccoli ruoli in adattamenti di personaggi più celebri e interessanti, quasi sempre accompagnato all'inseparabile compagno d'avventure Booster Gold. Di certo, costruire un lungometraggio da oltre cento milioni su di lui era un azzardo. Che, infatti, non ha ripagato.



Il primo Blue Beetle si affaccia nelle edicole già nel 1939 e appartiene più alla categoria degli eroi pulp che dei supereroi. In questa prima incarnazione, è Dan Garrett, archeologo che rinviene uno strano scarabeo blu in Egitto che gli dona i poteri per combattere il crimine.
Il secondo Blue Beetle, apparso a partire dal 1966, è Ted Kord, ad oggi l'incarnazione più celebre. Creato niente meno che da Steve Ditko, Kord è uno studente che eredita lo scarabeo blu da Garrett, suo professore ora defunto. E tale incarnazione, oltre ad essere la più celebre, è anche la più importante: come la prima è targata Charlton Comics e fa parte di quel roaster di personaggi che a partire dagli anni '80 entrano nell'universo DC a seguito dell'acquisizione degli asset della società, oramai fallita. Ted Kord e il suo alter-ego divengono così la base su cui Alan Moore sviluppa il suo Nite Owl, quando il celeberrimo "Watchmen" altro non doveva essere se non una reinvenzione degli eroi della Charlton.
Nel 2006, infine, arriva Jamie Reyes, terza incarnazione, un ragazzo di El Paso che rinviene accidentalmente lo scarabeo e ne diventa il nuovo portatore. In questa versione, lo scarabeo è un'armatura aliena caduta sulla Terra decenni prima e Blue Beetle diventa un incrocio tra lo X-O Manowar della Valiant e il Guyver di Yoshiki Takaya.
Ed è questa versione che arriva sul grande schermo, in un film in solitaria ufficialmente ambientato nel DCEU (non si sa se lo stesso dei precedenti film o quello reinventato da James Gunn), ma senza che gli altri eroi DC facciano neanche un cameo.




La Warner decide di abbracciare in toto le origini messicane di Reyes e crea un film che dovrebbe omaggiare la cultura messicana in America, ma che si rivela presto come un crogiolo di cliché. 
Per iniziare, l'azione si sposta da El Paso nell'immaginaria Paloma City, sorta di metropoli nella quale si sono riuniti tutti gli stereotipi possibili e immaginabili sui latini, dei quali la famiglia Reyes diventa una sorta di incarnazione totalizzante. Tutti sono messicani, tranne ovviamente i ricchi e potenti; tutti mangiano solo tacos e tortillas, bevono solo birra Corona e ascoltano solo cover in castisgliano dei più famosi pezzi pop, oltre che a guardare solo cartoni e film messicani (tra i quali spunta anche "Cronos", con il suo bel scarabeo dorato). Nonna Reyes diventa poi lo stereotipo tra gli stereotipi quando si scopre che in passato era stata una guerrigliera rivoluzionaria. In quale rivoluzione? Non si sa, ma tanto in Sud America c'è sempre una rivoluzione da qualche parte.
L'intento rappresentativo si fa quindi parodistico e più che inclusivismo, quello di "Blue Beetle" sembra una forma di ghettizzazione, nel suo voler essere un prodotto fatto da Messicani per il gusto dei Messicani. O per quello che una megacorporation americana pensa possa essere il gusto dei Messicani.




Per il resto, non c'è nulla in tutto il film che possa definirsi originale, tanto che a tratti sembra davvero che la sceneggiatura sia stata scritta da un'intelligenza artificiale che ha raccattato tutti i luoghi comuni dei film di supereroi dalla rete (oltre che tutti gli stereotipi sul Sud America).
Si parte ovviamente dal fatto che tutto il film non è che una origin-story, con Jamie che trova lo scarabeo e impara a usarne i poteri e nulla più. Le effettive origini del mcguffin non vengono rivelate, ma in compenso vengono incasellati i luoghi comuni del caso, comprese le immancabili scene dove il protagonista è preda dei poteri impazziti (situazione tra l'altro già vista in un episodio di "Smallville" oltre dieci anni fa), che tra l'altro fa calare una coltre di derivatività sul tutto, trasformando il suo protagonista in una sorta di Billy Batson nell'armatura di Iron Man
Si passa per l'obbligatoria storia d'amore con la bellissima di turno, forzata come da copione; e si arriva ad un villain, la Victoria Kord interpretata da una sprecatissima Susan Sarandon, le cui motivazioni sono come sempre date dal profitto, con la più classica delle forzature quando ci si accorge che vuole avere lo scarabeo per creare altre armature supertecnologiche pur essendo già riuscita a replicare un esoscheletro cyberpunk già perfettamente funzionante.
Non mancano neanche dialoghi didascalici o imbarazzanti, come quelli del supercattivo Carapax, che sembrano davvero scritti da un algoritmo che genera frasi da cattivo di default, con tanto di roba tipo "Non meriti questo potere!" e "L'amore per la tua famiglia ti rende debole!" che si sbuffa solo a sentirla.




Tutto in "Blue Beetle" è già visto, non c'è nulla di nuovo o di davvero simpatico. Certo, la regia si sforza di dare delle coreografie decenti alle scene d'azione, usa i colori blu e viola al neon per concedere un minino di personalità alle immagini, si dà spazio alla famiglia di Jamie anche per creare soluzioni narrative un attimo meno scontate (la missione di salvataggio che apre il terzo atto), si cerca di dare un minimo sindacale di caratterizzazione a Carapax e si cerca persino di dare una moraluccia sull'importanza dei legami famigliari e sul razzismo sistematico, ma è davvero tutto troppo scontato e troppo poco per tenere davvero alta l'attenzione. La noia, quindi, la fa da padrone e per un film di appena due ore di durata è un difetto inescusabile.




Se fare un intero film su Blue Beetle aveva poco senso, fare un film come "Blue Beetle" ne aveva anche di meno. Certo, è sicuramente un prodotto decisamente più dignitoso di tanta spazzatura a tema supereroi vista negli ultimi tempi, ma questo non lo rende interessante o anche solo divertente, neanche per sbaglio.

mercoledì 20 marzo 2024

Drive-Away Dolls

di Ethan Coen.

con: Margaret Qualley, Geraldine Wiswanathan, Pedro Pascal, Colman Domingo, Beanie Fedelstein, Joey Slotnick, C.J. Wilson, Bill Camp, Connie Jackson, Annie Gonzalez, Matt Damon.

Commedia/Azione

Usa, Regno Unito 2024













---CONTIENE SPOILER---

La separazione tra i fratelli Coen è tutto sommato durata davvero poco, giusto una manciata di anni duranti i quali Joel ha diretto il bel "Macbeth", mentre Ethan ha diretto il suo primo lungometraggio in solitaria, il documentario su Jerry Lee Lewis "Trouble in Mind"; e alla vigilia del loro ritorno assieme, ecco uscire "Drive-Away Dolls", primo lungo di fiction di Ethan, vero e proprio coacervo di (quasi) tutte le ossessioni del duo calato in un road-movie queer.




1999. Jamie (Margaret Qualley) e Marian (Geraldine Wiswanathan) sono due amiche che decidono di lasciare Philadelphia per trasferirsi a Tallahassee, in Florida, dalla zia di quest'ultima. Per il viaggio prendono in affitto una vecchia dodge... nel cui bagagliaio c'è una valigia misteriosa, inseguita da due strani tipi poco raccomandabili (C.J. Wilson e Joey Slotnick).




Una trama scontata e già vista, si può ben dire. Il mcguffin della valigetta è il leitmotiv di quel cinema di genere americano degli anni '90 che Ethan Coen qui vuole abbracciare in tutta la sua interezza e con tutti i suoi luoghi comuni. Proprio lui che con "Fargo" e "Il Grande Lebowski" in quel periodo ha creato due delle commedie nere-noir più apprezzate di sempre, ora torna "sul luogo del delitto" per coniare un omaggio vivido.
Tutto in "Drive-Away Dolls" è un omaggio al passato. Oltre alla valigetta ci sono i due scagnozzi scalcinati e un po' scemi, un senatore biondo che nasconde un segreto di natura sessuale e un mistero che una volta disvelato fa calare il ridicolo su tutto l'assunto. Tutto ciò che ci si aspetta da un film dei fratelli Coen e tutte le tematiche che solitamente tornano nei loro film.




Anche "Drive-Away Dolls" è in parte un film sui malcostumi americani, ripresi con una lente grottesca che ne amplifica le storture sino al paradosso. Il più demenziale è ovviamente la rivelazione sul contenuto del mcguffin: una serie di dildo ottenuti dai peni di persone poi divenute importanti, tra i quali un senatore repubblicano in odore di candidatura alle presidenziali, ossia un segreto strampalato pronto a sgretolare quella patina di finta onestà di ricopre le istituzioni e i potenti.
Ed è, al contempo, un film su di un pugno di personaggi idioti, dove tutti, più o meno, lo sono. I due killer sono solo l'esempio più fulgido, così come quel senatore che si è letteralmente "inculato da solo". Ma non meno stupide sono le due protagoniste, due ragazze lesbiche prigioniere del loro carattere monodimensionale.




La più frustrata è ovviamente Marian, ragazzetta fin troppo seria, schiava del suo carattere da para-intellettuale che le impedisce di vivere in modo libero la propria sessualità, da cui una insoddisfazione che sfoga in modo antipatico con il prossimo. Ma non meno caratterialmente corrotta è Jamie, la "ragazzaccia" texana sottomessa dalla propria incontenibile libido, incapace di vivere una relazione seria proprio perché in preda ad una forma di ninfomania implacabile (da cui l'astio della ex Sukie, che la picchia a inizio film); è praticamente lo stereotipo di un latin-lover calato nel corpo esile e sensuale di Margaret Qualley, satira di quella sessualità estrema che porta a estreme conseguenze.
Due ragazze che si completano a vicenda, due opposti che ovviamente finiscono per attrarsi, per completarsi in una unione tanto strampalata quanto perfetta. Che permette a Coen di creare anche un perfetto commento sulla comunità LGBT+.




Il 1999 di "Drive-Away Dolls" è in tutto e per tutto il presente, dove l'omosessualità viene accettata e vista come una devianza solo dai personaggi negativi. Cosa che non deve stupire, visto che in realtà l'ambientazione storica è dovuta al semplice fatto che lo script fu iniziato dall'autore assieme alla moglie Tricia Cooke oltre vent'anni fa.
Coen si diverte a dare spazio a personaggi queer caratterizzandoli in modo del tutto naturale, come se fossero personaggi qualunque e non necessariamente esistenti meramente a causa alla loro sessualità, che ne costituisce solo una parte della caratterizzazione, tanto che tutta la storia avrebbe funzionato lo stesso se una delle due protagoniste fosse stata maschio. In un'epoca dove si insegue la sacralità del personaggio omosessuale, un veterano del cinema americano compie l'operazione più progressista possibile creando due personaggi del tutto "normali" in una storia dove la loro sessualità non è neanche il vero motore degli eventi, pur celebrando in modo vivido i costumi della comunità omosessuale, che, di conseguenza, trovano una rappresentazione più veritiera che in tanto cinema woke da strapazzo.
La penna di Ethan Coen è così ancora appuntita e prova ne sono anche i dialoghi freschi e frizzanti. Ma "Drive-Away Dolls" ha il limite inrinseco che ogni operazione del genere porta con sé, ossia la superficialità.




Nessuna delle tematiche affrontate trova quel giusto approfondimento o anche solo quel mordente che le opere dei Coen solitamente hanno, se non quella della relazione delle due ragazze e il loro arco caratteriale. Tutto il resto è veloce e repentino, complice anche la brevissima durata, e alla fine nulla finisce per risaltare davvero in un calderone di idee e situazioni che con il giusto spazio avrebbero davvero potuto dar vita ad un film decisamente memorabile.
Il che si somma alla ovvia mancanza di originalità, un difetto intrinseco alla sua natura di film-omaggio: oltre al passato di Ethan Coen si respira un'aria da cinema della New Wave, con la voglia di mettere al centro due ragazze che più che da "Thelma & Luoise" sembrano uscite da una produzione di Roger Corman tanto è la loro spigliatezza. La riproposizione di cliché e luoghi comuni in modo amoroso porta con sé la volontà di non dire nulla di nuovo e l'esordio in solitaria di Ethan Coen alla fine è quello che è, ossia un puro atto d'amore che vuole unicamente celebrare, non innovare. Tanto che l'unica nota di vera originalità viene data dalla scelta di ambientare praticamente tutto il film in interni, pur essendo un buddy-movie on the road. Il che, assieme ad un uso giocoso e divertente delle transizioni, dimostra come anche Ethan abbia un certo occhio per la messa in scena, non limitandosi a rifare quanto fatto dal fratello in passato.

lunedì 18 marzo 2024

Madame Web

di S.J. Clarkson.

con: Dakota Johnson, Sydeny Sweeney, Isabela Merced, Celeste O'Connor, Tahar Rahim, Emma Roberts, Adam Scott, Mike Epps, Kerry Bishé.

Azione/Fantastico

Usa, Canada, Messico 2024











Aveva davvero senso fare un film su Madame Web?
Le risposte più ovvie sarebbero: "Si, per fare soldi" oppure "No, visto che è un personaggio ai limiti dell'inesistente", ma risponderebbero solo in parte ad un quesito che in realtà ha ben altra risposta.
In prima approssimazione, si può ben dire che "Madame Web" non ha il minimo motivo di esistere, sia se tiene conto di che razza di film abbia finito per essere, sia e soprattutto se si tiene conto dell'assordante tonfo che, come da copione negli ultimi anni, abbia fatto al botteghino, dimostrando  come non abbia senso fare un film sull'Uomo Ragno senza l'Uomo Ragno o un film sulle donne-ragno praticamente senza le donne-ragno (e con buona pace di Isabela Merced, che ha incolpato i soliti fan misogini per non ammettere di aver preso parte ad un'operazione nata morta). Ma il suo vero motivo di inesistenza risiede in primis proprio nel personaggio dal quale prende le mosse.




Madame Web non è un semplice personaggio di seconda categoria nel roaster Marvel; in realtà non rientra neanche nella terza o nella quarta, di categoria. E', in buona sostanza, una sorta di comparsa di lusso che a partire dal 1980 ha cominciato ad apparire di tanto in tanto sulle testate di Spider-Man senza uno scopo effettivo apparente.
Nei piani originari degli autori doveva condurre l'Uomo Ragno verso eventi catastrofici ed epici che ne avrebbero cambiato lo status quo, ma tutte le storie a riguardo sono state posticipate fino alla loro effettiva cancellazione. Cassandra Webb è così una mutante ultrasettantenne non-vendente che usa i suoi poteri psichici per predire un futuro che non si avvera, comparendo a caso, pronunciando qualche frase sibillina a Peter Parker per poi tornare nel nulla da cui è emersa. Costruire un intero film su di lei era cosa difficile, per questo la Sony l'ha per prima cosa ringiovanita, dandole le sembianze della sex symbol Dakota Johnson, solo per poi affiancarla ad un intero gruppo di "ragno-persone" in una storia senza né capo, né coda.


Il viallain è Ezekiel Sims e anche qui ulteriori dubbi sorgono preponenti. Già nelle pagine dei fumetti, anche Sims era una sorta di "aborto semovente" che nelle intenzioni originarie del suo creatore J.Michael Straczinsky avrebbe presagito un futuro cupo per il Tessiragnatele. Sims era infatti una sorta di "Uomo Ragno originario" che aveva avuto i poteri in gioventù e aveva persino vestito il costume di un vigilante aracnide, per poi ritrovarsi, da anziano, a fare da mentore ad un Peter Parker che ora scopre come i suoi poteri non gli siano stati donati per caso, ma per un preciso disegno cosmico e come gli aracnidi mutanti siano in realtà le incarnazioni di spiriti totemici, con Sims ad incarnare una figura semi-paterna a metà strada tra l'archetipo del mentore e l'anti-eroe. Peccato che, come per Madame Web, anche tale storyline sia stata cestinata prima di giungere a piena maturazione, come praticamente tutte quelle che nei primi anni duemila vedevano tutti i supereroi Marvel passare dall'essere persone comuni dotate di superpoteri ad incarnazioni di entità mistiche o mitologiche. 
Quanto alle donne-ragno, c'è davvero poco da dire, trattandosi di aggiunte al cast dell'Uomo Ragno nate sull'onda del successo di Jessica Drew, la prima Donna Ragno creata nel 1977 (e apparsa di recente in "Across the Spider-Verse"), delle quali solo Julia Carpenter ha finito per giocare un ruolo rilevante, facendo praticamente da modello per il mitico costume nero e finendo persino per diventare la seconda madame web circa dieci anni fa.



Come creare, quindi, un intero film su di un pugno di personaggi inutili e privi di carisma? Semplice, gli si costruisce attorno la più basilare e derivativa delle storielle d'accatto: Cassandra Webb è la figlia di una ricercatrice che nelle giungle del Perù ha scoperto dei "super-ragni" che garantiscono poteri speciali, tanto da essere venerati da un'intera tribù di "uomini-ragno"; Ezekiel Sims è un suo collega che l'ha uccisa per carpire il potere dei ragni... non si sa perché visto che avrebbe potuto tranquillamente farlo senza macchiarsi di un crimine. Anni dopo, Sims ha una visione del futuro nella quale tre donne-ragno lo uccidono senza apparante motivo e decide di ucciderle in anticipo. Spetta dunque a Cassandra, che ha ereditato il potere della preveggenza ragnesca dalla madre, difenderle e garantire anche la nascita di Peter Parker, ora nel grembo della madre, sorella del suo collega paramedico Ben Parker.




Una storia che come da copione è zeppa di incongruenze, buchi e forzature ridicole, oltre al fatto che rasenta il plagio: troppo facile rivederci il palinsesto di "Terminator", con Cassandra novella Kyle Reese che deve proteggere una donna che darà alla luce un eroe e un gruppo di ragazzine dal futuro importante da un cattivo virtualmente invincibile che le insegue senza sosta. Perché poi Sims decida di uccidere tutto e tutti quando avrebbe potuto tranquillamente evitare il realizzarsi della visione è un mistero ed è la dimostrazione di come a nessuno interessasse davvero costruire una storia anche solo credibile.
Credibilità che vacilla incessantemente con il passare dei minuti: non si crede ad un villain che per trovare tre ragazze rapisce un'impiegata della NSA che passa le serate all'opera portando con sé il badge del lavoro, ciò al fine di ottenere acceso ad un anacronistico sistema di riconoscimento facciale usando come campione delle foto estratte praticamente dai suoi sogni (come?), quando avrebbe potuto tranquillamente hackerare un qualsiasi sistema di sorveglianza, in modo sempre fantastico ma decisamente più plausibile. Non si crede ad una Cassandra che si trasforma da paramedico a macchina da guerra nell'arco di qualche ora; non si riesce a credere a tre adolescenti che dopo essere sopravvissute a stento all'attacco di Spider-Terminator ed essersi ritrovate da sole in un bosco, decidono di provarci con dei ragazzi ballando sulle note di Britney Spears; non si crede a quel viaggio in Amazzonia a metà film, con tanto di taxi rubato lasciato tranquillamente all'aeroporto; e non si crede a quel confronto finale dove Cassandra sconfigge TermiSpidey con dei fuochi d'artificio talmente potenti da sfondare i muri in mattone di un magazzino.



In compenso, si resta sconvolti dalla goffaggine di uno script che deve raccontare una storia semplicissima in modo totalmente lineare sentendo comunque la necessità di ribadirne i medesimi punti ogni 10-15 minuti, in un modo talmente didascalico da sembrare scritto da e concepito per un pubblico di infanti afflitti da sindrome di deficit dell'attenzione. O dal solito inanellarsi di scene ridicole, come quando Cassandra scopre di poter cambiare il futuro salvando la vita ad un piccione o quella terribile scena del baby-shower nella quale confessa ridacchiando di essere orfana e di come sua madre sia morta di parto. O da quei dialoghi che oscillano tra il didascalico e l'oscenamente brutto, con l'apice che si raggiunge quando Cassandra chiede a Ben Parker se gli hanno mai sparato, senza far capire a noi spettatori se tale battuta debba essere ironica o macabra.
Come sempre, uno script ridicolo è il minimo da aspettarsi in un'operazione del genere. "Madame Web" però va oltre sino a raggiungere un limite di pigrizia ulteriore e praticamente inedito: è un film di supereroi senza i supereroi.




In due ore di film, le donne-ragno appaiono solo nelle visioni. Neanche nel terzo atto, come di solito avviene anche nei peggiori exploit Marvel, vediamo Julia Carpenter (qui ribattezzata Julia Cornwall forse per non ricordare al pubblico l'esistenza di cineasti di ben altro calibro), Anya Corazon e Mattie Franklin nei loro costumi ragneschi, restando sempre agghindate come persone comuni; la conseguenza di questa incredibilmente insensata "scelta artistica" è che tutte le scene d'azione (e di conseguenza tutto il film) mancano di personalità, essendo strutturate come un perenne inseguimento che culmina sempre in Cassandra  che fa schiantare un veicolo contro Ezekiel (giusto per rimarcare i debiti di ispirazione con Cameron). 
Quando poi si arriva al "combattimento finale" ambientato sul tetto di un magazzino con una gigantesca insegna rossa che cade a pezzi, la mente non può che correre ad "Highlander", solo con il 100% di product placement in più e senza epica, né stile, ennesima riprova di come la forza di volontà degli autori di trovare qualcosa di anche solo vagamente originale sia assente. 
E a fine film, ci si accorge di come quello a cui si è assistito non è neanche una origin-story, quanto un pilot da 120 milioni di dollari; non per nulla, la regista S.J. Clarkson fino ad ora ha lavorato sempre e solo a progetti televisivi, praticamente mai a lungometraggi cinematografici, dimostrando di non avere la stoffa per portare in scena una storia d'azione o adattare uno script alla narrazione filmica vera e propria; tant'è che il suo stile di messa in scena praticamente non conosce né le establishing shot, né i campi lunghi, con inquadrature perennemente a misura del volto dei personaggi e delle zoomate a caso o le solite trasfocature a rappresentare gli unici virtuosismi, come se davvero stesse portando in scena un prodotto pensato e diretto per lo schermo di uno smartphone.




E' poi buffo notare come il film sia ambientato nel 2003, per qualche imperscrutabile motivo; non si sa perché non sia ambientato nel presente, non si sa perché non sia ambientato nell'universo di Venom o Morbius (nonostante gli sceneggiatori siano gli stessi di quest'ultimo), men che meno nel MCU vero e proprio. Fatto sta che quando si fa mente locale e ci si ricorda della sciatteria generale, non si può non pensare come un film del genere non possa che essere ambientato in un periodo nel quale il paradigma dei film dei supereroi era costituito da roba come "Daredevil" e "Elektra", due schifezze con le quali questo exploit ha in comune la totale inconsistenza, lo sfregio del ridicolo, la bruttezza generale e l'indole derivativa. Tanto che se c'è qualcosa da salvare in questo disastro, è solo la bellezza delle attrici protagoniste e il loro impegno, purtroppo talmente sprecato da indurre tristezza.




Si potrebbe così aprire un dibattito su quale sia il peggior film di supereroi visto di recente tra "Madame Web" e "The Marvels"; e se il primo almeno sembra una produzione professionale e non un fan-film fatto in casa, almeno il secondo ha la decenza di portare in scena le eroine del titolo senza vergognarsi di essere ciò che è, né cercando di imitare film migliori (che non siano le parodie di Mel Brooks, ovviamente).
Valeva quindi la pensa di buttare alle ortiche centinaia di milioni di dollari per un film del genere?
La risposta è in realtà un categorico si. E la si comprende quando si fa mente locale e ci si ricorda di Amy Pascal, ancora oggi tra i patron della Sony.




"Madame Web" è la coronazione del sogno della Pascal di creare un film di supereroi dove gli eroi sono tutte donne che combattono contro un "patriarca" violento e invidioso dei loro poteri, ossia quel sogno che ha portato alla creazione del "Ghostbusters" del 2016 e che nelle sue intenzioni dovrebbe dare un'adeguata rappresentazione della forza e della caparbietà delle donne all'interno di un blockbuster.
L'imprint è praticamente quello di quel "Glass Ceiling" che aveva annunciato circa dieci anni fa (con Gwen Stacy come protagonista) e fa ridere se si pensa che alla fine non ha preso parte al progetto, lasciando nelle mani del produttore Lorenzo Di Bonaventura, incaricato di dare piena forma ad un film che dia alle donne i supereroi che dovrebbero rappresentarle.
Peccato che queste eroine siano dei personaggi di serie Z e che passino l'intero film a fuggire anziché combattere, che non abbiano veri superpoteri e che non le si è graziate né di un look adeguato, tantomeno di un film che ne mettesse davvero in risalto la forza o che avesse anche solo una propria personalità, nascendo come costola di una serie di film su di un supereroe maschio ed essendo sviluppata come un coacervo di influenze altrui. 



Il concept della Pascal, pur interessante in teoria, viene sviluppato malamente; ma non bisogna neanche dare la colpa a Di Bonaventura e forse neanche alla Clarkson, visto che la Pascal stessa ha comunque dato alla luce diversi exploit di pessimo livello: anche se avesse curato in prima persona la produzione, non è detto che "Madame Web" sarebbe stato poi tanto diverso.
E per dovere di cronaca, va sottolineato come il film sia comunque stato scritto e diretto da una donna, in ossequio al falso luogo comune secondo il quale "solo le donne possono creare personaggi femminili"; ma se per la Clarkson questo è "female empowerment", allora vuol dire che non è una vera femminista, solo l'ennesimo colletto bianco di Hollywood privo di talento che predica bene e razzola malissimo. E se si tiene conto di come i prodotti supereroistici fatti da donne e pensati per le donne alla Marvel siano questo, "The Marvels", "Echo" e "She-Hulk- Attorney at Law" e di come, invece, tutti i migliori personaggi d'azione di sesso femminile dell'intera storia del cinema siano stati concepiti da autori maschi, allora non si può non credere come ad Hollywood forse sono le donne ad essere davvero misogine.

venerdì 15 marzo 2024

Salvatore Giuliano

di Francesco Rosi.

con: Frank Wolff, Salvo Randone, Pietro Cammarata, Max Cartier, Nando Cicero, Cosimo Torino, Carmelo Oliviero, Renato Pinciroli, Francesco Rosi.

Storico/Inchiesta

Italia 1962















Il 5 Luglio 1950, il corpo esanime del bandito Salvatore Giuliano viene ritrovato nel cortile di un'abitazione privata in Castelvetrano. E' questo l'epilogo di una storia controversa e sanguinosa, della quale molti dettagli risultano ancora oggi oscuri e sulla quale è sempre stata avvertita l'ombra di Cosa Nostra, oltre che degli ambienti più meschini della Democrazia Cristiana. 
Quello che si può dire della storia di Giuliano con certezza, è che, culminata come fu con la strage di Portella della Ginestra il 1 Maggio 1947, ha rappresentato il perfetto battesimo di sangue della Repubblica Italiana e di quella Prima Repubblica a guida DC nella quale le stragi di cittadini innocenti e la violenza esasperata saranno elementi caratterizzanti; e che la sua morte ha rappresentato il primo mistero di una storia italiana che farà di arcani, menzogne e sangue i suoi tratti essenziali.




Una storia che inizia durante la Seconda Guerra Mondiale. Nato in una famiglia di contadini e anch'egli dedito all'agricoltura, Giuliano avvia la propria carriera criminale appena ventenne, contrabbandando alimenti del mercato nero. Dopo essere fuggito da un posto di blocco e aver freddato un carabiniere nel 1943, organizza il nucleo di quella che diventerà la "Banda Giuliano", della quale elemento di punta è il sodale Gaspare Pisciotta, che negli anni successivi si rivelerà elemento chiave delle vicende. 
Durante la guerra, la banda di Giuliano si occupa di sequestri e estorsioni per conto di Cosa Nostra in danno della popolazione, tanto che persino Tommaso Buscetta, anni dopo, lo inquadrerà come membro dell'associazione mafiosa.
Tuttavia, è dopo la fine della guerra che la sua figura inizia a diventare più di quella di un semplice mafioso. Giuliano si avvicina infatti al Movimento Indipendentista Siciliano e ne diventa il braccio armato, inscenando vere e proprie azioni di guerriglia contro lo Stato, che si sostanziano in attacchi aperti contro le stazioni dei carabinieri sparse per la Sicilia. 
Dopo la fine dell'esperienza separatista, Giuliano viene acclamato come un eroe del popolo da parte della popolazione siciliana, per il suo essersi scontrato contro una classe politica percepita come ostile, e le sue gesta vengono caricate di un'aura mitica, nonostante siano sempre rivolte all'illegalità spicciola; anche perché, nelle sue parole, l'azione brigantesca era sempre rivolta all'emancipazione del popolo siciliano.
Dopo la strage di Portella della Ginestra, ai danni della popolazione contadina che sfilava per la Festa del Lavoro, la Banda Giuliano devasta anche le sedi del PCI sparse per la Sicilia, mettendosi così contro sia le autorità che parte di quella popolazione che, a parole, sosteneva.
Poco prima della sua morte, Giuliano, in una serie di interviste rilasciate ai giornalisti che si recavano sui monti nei quali viveva alla macchia, attestava la sua vicinanza agli ambienti conservatori, in particolare della Democrazia Cristiana, prima ancora che con i separatisti e i movimenti sovversivi dei primi anni della Repubblica. La sua morte, di fatto, arriva all'improvviso e ha tutti i connotati di un'esecuzione adoperata sia per buttare via uno strumento oramai inutile, sia per obliare quelle scomode verità da lui conosciute.




Nel 1960 circa, Francesco Rosi inizia la lavorazione di un film su Giuliano, la sua storia e le implicazioni sociali e morali che la connotano. Di concerto con la sceneggiatrice Suso Cecco D'Amico, sviluppa un primo script definibile come "convenzionale", con Giuliano al centro della vicenda ed una costruzione drammaturgica del tutto classica. Tutto questo avviene a porte chiuse negli uffici di Roma ed è proprio a causa di questa lontananza fisica dai luoghi in cui il bandito ha vissuto che Rosi sente la necessità di recarsi in Sicilia, anche solo al fine di collegare il suo personaggio lì dove le riprese dovrebbero avvenire.
Giunto a Montelepre, inizia a raccogliere tutta una serie di testimonianze dei cittadini del luogo, ove il nome del bandito risuona ancora forte dieci anni dopo la sua scomparsa. Contemporaneamente, la D'Amico, assieme ad un ispettore di produzione, inizia a spulciare i fascicoli dei processi ai membri della banda e a Pisciotta, ritrovando tonnellate di incarti presso il Tribunale di Viterbo contenenti le relative testimonianze. Il numero di aneddoti è talmente alto e talvolta talmente dettagliato, così come le deposizioni sono chilometriche e così dense di dettagli inquietanti, che Rosi e la d'Amico decidono di optare per una forma narrativa più libera, meno vincolata alla costruzione classica e lineare degli eventi. Una forma che finisce praticamente per ibridare la canonica narrazione documentaristica con la messa in scena propria della fiction: nasce il film d'inchiesta, che unisce i due registri per crearne un terzo, dotato della verosimiglianza del primo e della forza drammatica del secondo.
"Salvatore Giuliano" potrebbe così essere applaudito solo per questa intuizione che finirà per cambiare il volto di tanto cinema impegnato e non. Ma la sua importanza e la sua bellezza sono ulteriori e attengono tanto alla forma filmica quanto al contenuto civile di tutta l'opera.




Rosi parla apertamente di mafia, pronunciando il sostantivo più e più volte con la sua stessa voce narrante. 
Il ritratto che compie in primis del MIS è impietoso, descritto come un gruppo di opportunisti facinorosi che pur ispirati da nobili ideali, non disdegnano la violenza contro gli stessi Siciliani. Ma di più, arriva già in tempi non sospetti a descrivere il rapporto simbiotico tra criminalità organizzata e Stato: i carabinieri inviati in Sicilia per reprimere il banditismo lavorano gomito a gomito con Cosa Nostra una volta che la regione acquisisce l'autonomia, rendendo inutili i movimenti separatisti e vetusti i metodi di Giuliano. Gli ufficiali sono ritratti mentre incontrano i capi mandamento e trattano con gli stessi per la consegna dei membri della banda, come due facce della stessa medaglia, due incarnazioni di un potere che può affermarsi solo con il sotterfugio e il ricatto.




La storia del bandito e della banda viene scissa in quattro parti, poi sovrapposte in sede di racconto: la collaborazione con il MIS, l'attività di banditismo dopo l'ottenimento dell'autonomia (con la strage di Portella della Ginestra), la morte di Giuliano e il processo a Pisciotta e ai membri della banda, con le clamorose rivelazione fatte durante le udienze.
Rosi non vuole raccontare Giuliano, la sua figura mitologica e i motivi che lo spinsero a continuare l'attività di bandito anche dopo i giorni del MIS. A Rosi interessa fare il punto della situazione, dare uno spaccato credibile di un pezzo di Storia (allora) recente, illustrando le contraddizioni di una regione che da sole rappresentano le contraddizioni dell'intero Paese. E' per questo che in "Salvatore Giuliano" di Giuliano non c'è quasi traccia: appare quasi sempre in campo lungo, spesso di spalle, talvolta viene persino lasciato fuori campo; quando la macchina da presa gli si avvicina, lui è un cadavere, puro oggetto passivo. Perché in questa storia lui è solo un tassello, importante quanto si vuole, ma pur sempre una parte di un tutto più grande, proprio come il vero Giuliano era nella realtà, solo uno strumento in un gioco di potere ben più grande di lui.
Rosi non formula teorie sulla strage del primo maggio, lascia che siano i personaggi a sollevare i dubbi, recitando gli estratti degli interrogatori; laddove la connivenza tra Stato e mafia viene ritratta esplicitamente, il rapporto tra il bandito e gli alti papaveri della DC viene lasciato fuori dal testo, non per paure di ritorsioni, quanto perché all'epoca delle riprese molte delle verità scomode non erano ancora emerse. Tant'è che sarà solo "Segreti di Stato", nel 2003, a ipotizzare che tra i mandanti della strage ci fosse niente meno che Giulio Andreotti.




Il racconto di "Salvatore Giuliano" è di una modernità ancora oggi sorprendente. Partendo da una storia lineare per ovvi motivi, Rosi intesse una narrazione fatta di andirivieni e non semplici flashback, iniziando dall'epilogo, con la prima, iconica, immagine del cadavere di Giuliano riverso in terra, per poi tornare indietro e ricostruire la storia della banda partendo dal 1945, fino ad approdare, nell'ultimo atto, all'uccisione e al successivo processo alla banda.
L'intento è quello di creare un documento fedele ai fatti e precisa nella ricostruzione storica, ma che non sia davvero una semplice cronaca, lasciando talvolta l'emozione trasparire. L'immagine più famosa (e in realtà anche più ovvia) è quella della bellissima scena nella quale la madre del bandito viene chiamata ad identificarne il cadavere, dove l'emozione della donna viene ritratta senza filtri, con una spontaneità che riesce davvero a far vacillare il limite tra documentario e finzione. Ma per tutto il film si lascia che le emozioni dei personaggi traspaiano con chiarezza, quando necessario, senza cercare di contenerle, lasciando che la loro espressività colori i fatti in modo vivido. Una passione umana che fa un paio perfetto con quella civile sfoggiata dagli autori.




Grazie alla splendida fotografia del fido Gianni Di Venanzo (che poi illuminerà anche "8 1/2"), l'occhio di Rosi forgia nuovamente immagini ammalianti, dalla squisita composizione pittorica nelle inquadrature, la cui precisione della disposizione dei corpi nello spazio è a tratti sorprendente, come nelle sequenze del processo, graziate da movimenti di macchina precisi al millimetro. E sempre in tali sequenze, Rosi sfoggia un montaggio virtuosistico, che fa della cesura temporale uno strumento narrativo che anziché frammentare il racconto, lo cuce in modo perfetto, saltando avanti e indietro nel tempo con la sola giustapposizione delle inquadrature.



La grandezza di Rosi come narratore va così ritrovata nella dirompente forza di "Salvatore Giuliano". Un'opera tutt'ora interessante per la ricostruzione certosina degli eventi, ma soprattutto per la sua capacità di intessere un racconto dalla modernità forse oggi persino più apprezzabile, che continua a sorprendere sia per la bellezza estetica che per l'efficacia di un registro narrativo innovativo e pregnante.

venerdì 8 marzo 2024

Lupin III: Il Castello di Cagliostro

Rupan Sansei: Kariosutoro no shiro

di Hayao Miyazaki.

Animazione/Avventura/Azione

Giappone 1979

















A 45 anni dal suo esordio nei cinema nipponici, lo status di capolavoro de "Il Castello di Cagliostro" è pacificamente accettato da tutti: sia dagli otaku, sia dai cinefili in senso stretto, sia dai fan del ladro gentiluomo (re)inventato da Monkey Punch negli anni '60.
Ma quando l'esordio cinematografico di Hayao Miyazaki vide per la prima volta il buio della sala, il riscontro non fu proprio entusiastico, soprattutto dai fan di Lupin. Certo, gli incassi furono ottimi e la critica ben accolse questo exploit di un autore che seppur alle prime armi nella direzione generale, dimostrava un senso spiccato per la dinamicità nell'animazione, regalando un'estetica ed uno stile ineccepibili messi al servizio di una bella storia. Storia che, però, in parte scontentava chi da Lupin si aspettava ben altro. E anche la storia di come Miyazaki abbia finito per dirigere il film è, in fin dei conti, alquanto strana.




Tutto ha inizio con due tonfi. Il primo è quello del capolavoro "La Grande Avventura del Piccolo Principe Valiant", film d'esordio per Isao Takahata come regista, la cui produzione meriterebbe un approfondimento a parte; esordio che viene letteralmente mandato al macero da Toei Animation a causa degli scioperi dello staff, che la forzano a migliore le condizioni lavorative degli animatori in sfregio ai profitti selvaggi che invece l'allora patron Hiroshi Okawa (vero e proprio "Walt Disney del Giappone") voleva ottenere a tutti i costi. Con la conseguenza che avere una scusa per licenziare l'intero corpo produttivo, si decise di pilotarne il fallimento al botteghino, consapevoli che nel lungo periodo i guadagni sarebbero pur arrivati. 
Takahata, poco più che trentenne, e il suo amico e koai Miyazaki si ritrovano così a dover ripiegare sul mercato degli anime televisivi e accettano di lavorare alla Tokyo Movie Shinsha, dove vengono assegnati alla produzione della prima serie di Lupin, quella "con la giacca verde".
Il secondo tonfo è quello di questa prima incarnazione del personaggio: durata appena 23 episodi, viene trasmessa tra l'ottobre del 1972 e il marzo del 1973, periodo nel quale viene cancellata a causa degli scarsi ascolti, che portano la creatura di Monkey Punch a scomparire dalla coscienza collettiva tanto velocemente quanto vi era approdata giusto qualche anno prima, grazie al successo del manga.
Un oblio che però non dura molto: le repliche registrano delle percentuali d'ascolto notevoli, tanto che a fine anni '70 TMS decide di provare a rilanciare il marchio con una seconda serie; ma, nel dubbio di un ulteriore e possibile flop, decide di testare le acque con un lungometraggio d'animazione, il primo per Lupin III (ma non il suo primo film cinematografico in toto, visto che nel 1974 era stato prodotto e distribuito lo strambo "La Stana Strategia Psicocinetica", suo effettivo esordio al cinema); "Lupin III- La Pietra della Saggezza" arriva nei cinema nel 1978 registrando ottimi incassi, i quali garantiscono il via libera alla seconda serie, quella "con la giacca rossa", ad oggi l'incarnazione più amata del personaggio. E giusto un anno dopo, "Il Castello di Cagliostro" arriva in sala, riportando all'attenzione del pubblico quel primo Lupin, ora in una veste pressoché inedita.




Dopo aver svaligiato un casinò a Monaco con l'inseparabile Jigen, Lupin si accorge di come il denaro sia in realtà tutto falso; non si tratta, però, di falsi qualunque, bensì dei cosiddetti "denari del capro", banconote fasulle ma indistinguibili da quelle vere. Volendo venire a capo del mistero riguardante la loro produzione, si ritrova nel principato di Cagliostro, dove incappa per caso in una giovane e bella ragazza in fuga da un gruppo di aguzzini; dopo averla salvata, Lupin scopre come questi altri non è che Clarisse, erede al trono in fuga dal perfido Conte, governatore che ha arrogato a sé il potere. Ma questo non sembra essere il primo incontro tra la bella principessa e il ladro gentiluomo...




Una storia particolare, quella de "Il Castello di Cagliostro", lontana in parte da quello che già nel 1979 era il canone di Lupin III: non ci sono grandi colpi da fare, nessun mcguffin prezioso da recuperare o "missioni impossibili" da compiere; o, per essere più precisi, il tesoro è il cuore della bella ragazza e la missione impossibile consiste nella sua liberazione, in un'avventura che comincia quasi inavvertitamente. 
Lupin incontra Clarissa per puro caso, precipitando in una storia più grande di lui e aiutando a risolvere una questione con la quale non ha collegamenti personali; se non quelli, ovviamente, con la bella ragazza, che in passato aveva conosciuto il ladro e con il quale aveva condiviso un breve dal quale è però dipesa la vita del ladro, unico collegamento effettivo con la cospirazione ordita dal conte di Cagliostro.




Tanto che la storia è quasi quella di una favola, con Lupin che da anti-eroe smargiasso diventa un eroe a tutto tondo, intento a proteggere una bella principessa da un villain cattivo fin nel midollo che lui stesso ribattezza "mago cattivo". E' stato quindi facile per i fan vedere una forma di snaturamento del personaggio, non più schiavo di cupidigia e lussuria come da copione. Se non fosse che questo Lupin altro non è se non una versione più matura di quello visto nella prima serie, che appare infatti nei flashback come patito di donne e soldi: gli anni sono passati anche per lui ed è diventato più maturo, più adulto, sempre attratto dai tesori e dalle belle donne, non per nulla arriva a Cagliostro per indagare sulle banconote false e nel primo atto mette le mani addosso ad una compiacente giovane cameriera, ma non è più lascivo quanto prima. Tanto che somiglia più al Lupin che comparirà nella seconda serie, dove sovente si ritrova in situazioni simili, mosso anche dal vizio, ma principalmente da una forma di solidarietà verso la bella di turno, la quale, da qui in poi, non è più un semplice oggetto da concupire.
Se davvero c'è un personaggio diverso dal canone in questo secondo film dedicato al ladro di Monkey Punch, questa è Fujiko Mine: sempre bella, opportunista e voltagabbana, ma decisamente non sexy, bardata com'è in una tuta militare che anziché esaltarne le forme generose, la trasforma in una donna-macho; cosa strana se si pensa che le eroine dell'universo di Miyazaki avranno sempre una connotazione di sensualità, anche se non marcata quanto quelle di altri autori e serie anime.




Sebbene al suo esordio e impegnato in un vero e proprio progetto su commissione, Miyazaki sfoggia già qui quelli che saranno i tratti distintivi del suo cinema. Si parte dal character design dei personaggi, più morbido rispetto a quelli delle serie televisive, adattato in senso lato allo stile dell'autore e da lui stesso curato in prima persona. 
Si passa ovviamente attraverso la storia; già l'ambientazione totalmente mitteleuropea gli permette di portare in scena quei paesaggi rurali di quali è innamorato, con la tonalità verde acceso dei prati che la fa da padrone per la maggior parte del film; senza contare il tono favolistico di tutto l'assunto, con al centro una ragazza che sebbene incarni letteralmente il ruolo della damigella in pericolo, è di fatto molto reattiva agli eventi, anticipando in parte il personaggio di Nausicaa.
Si arriva poi al tema del volo, vera e propria ossessione miyazakiana, che qui viene declinata in più modi. Quello più ovvio è dato dalla scena sul eliveivolo del conte, con la fuga dal torrione a metà film circa; ma per tutto il film, in realtà, Miyazaki si diverte a infrangere le regole della gravità e a far volare Lupin in sfregio alla stessa, come quando arriva per la prima volta alla torre, in un volo fantastico del tutto impossibile e proprio per questo ammaliante; o ancora nell'inseguimento iniziale, con la 500 che corre sulla strada come se fosse un hovercraft non vincolato al terreno; il tutto condotto con una dinamicità incredibile.




La parte del leone la fa poi anche l'animazione, diretta da quel Yasuo Otsuka che poi animerà anche la seconda stagione stagione ed era allora reduce dalla prima, oltre che da "La Pietra della Saggezza". Un'animazione fluida e complessa, dove nelle scene di massa ogni singolo personaggio trova una cura estrema nella creazione delle sue azioni; così come curatissimi sono i movimenti di macchina con i quali Miayazaki dimostra di aver assorbito la lezione del senpai Takahata, usando la macchina da presa come se fosse quella di un film dal vivo per creare sequenze complesse e articolate che aumentano il tasso di spettacolarità oltre ogni livello. E l'apice lo si raggiunge nel celebre climax all'interno della torre dell'orologio, ispirata alla scena cult di "Tempi Moderni", dove la regia scatena la forza dell'animazione in una serie infinita di ingranaggi in movimento e corpi instabili, sfoggio di una cura dei dettagli e di un gusto per la dinamicità ai limiti del maniacale, vero e proprio capolavoro visivo messo magistralmente al servizio di una storia tanto semplice quanto incalzante, che qui trova una perfetta risoluzione.



Anche a distanza di quasi mezzo secolo, "Lupin e il Castello di Cagliostro" resta forse la migliore incarnazione in assoluto del personaggio. Oltre che, ovviamente, un esordio magistrale per un maestro dell'animazione.



EXTRA
Davvero curiosa la storia di come "Lupin e il Castello di Cagliostro" sia giunto in Italia.
La prima edizione viene curata direttamente da Fininvest nel 1984 e il film viene trasmesso quell'anno su Italia 1. Ma il doppiaggio non solo è afflitto da vistose libertà di adattamento della storia, ma non presenta nessuna delle voci storiche dei personaggi.
Una seconda versione viene curata per l'home video da Yamato Video nel 1992, con un nuovo cast di doppiatori, nessuno dei quali neanche questa volta è tra quelli storici della serie; e anche questa volta non mancano imprecisioni nell'adattamento che rendono talvolta difficile seguire la storia.
Solo nel 2007 è sempre la Yamato Video a curare una terza e definitiva versione dell'edizione italiana, pensata ancora una volta per l'uscita in Home Video. Il film viene ora presentato con un nuovo master ottenuto dagli originali nipponici restaurati e il doppiaggio viene effettuato da capo usando un copione con un nuovo adattamento, finalmente fedele ai dialoghi originari. Tornano anche i doppiatori originali delle serie televisive, ad eccezione di Marcello Prando, voce storica di Zenigata, scomparso nel 2005. Per Roberto Del Giudice, storico doppiatore di Lupin, sarà l'ultima volta nei panni dell'iconico personaggio: morirà solo pochi mesi il completamento delle registrazioni.