sabato 30 aprile 2016

Codice 999

Triple 9

di John Hillcoat.

con: Casey Affleck, Woody Harrelson, Chiwtel Ejofor, Kate Winslet, Anthony Mackie, Clifton Collins Jr., Aaron Paul, Gal Gadot, Norman Reedus, Teresa Palmer. Michael Kenneth Williams.

Noir/Gangster

Usa 2016











John Hillcoat non riesce a sfuggire alla "maledizione degli esordi"; nel suo caso, però, più che il suo primo lungometraggio, "Ghost of the Civil Dead" (1988), a fungere da metro di paragone ineguagliato è il suo terzo lavoro, nonché primo vero successo di critica e pubblico, quel "La Proposta", magnifico esempio di western australiano, che nel tardo 2005 lo portò alla ribalta sul piano internazionale.
I suoi successivi lungometraggi "The Road" (2007), adattamento dell'omonimo e pluripremiato romanzo di Cormac McCarthy, e "Lawless" (2012) si rivelarono pellicole dall'impianto stilistico solido, ma vuote, prive di mordente alcuno e per questo freddi esercizi di stile.
Non sfugge alla regola, purtroppo, neanche "Codice 999", mix di caper e noir metropolitano che il regista australiano porta in scena con mano solida, ma che crolla sotto il peso di uno script inconsistente.




Atlanta, Georgia. Ricattato dalla regina della mafia russo-ebraica Irina Vlaslov (Kate Winslet), il poliziotto Michael Atwood (Chiwetel Ejiofor) è costretto a mettere su una banda di sbirri corrotti che svolgano il lavoro sporco per suo conto. Sulle loro tracce c'è l'esperto detective Jeffrey Allen (Woody Harrelson), coadiuvato da suo nipote Chris (Casey Affleck), recluta appena tornata dal fronte che viene affiancato, nei pattugliamenti, a Marcus Belmont (Anthony Mackie), membro di punta della banda.




Lo sceneggiatore Matt Cook, semiesordiente, imbastisce una storia complicata, che oscilla tra il noir vero e proprio e il poliziesco più classico. Due sono le trame principali che si intrecciano: quella del gruppo di poliziotti corrotti costretti al male per proteggere sé stessi ed i propri cari dalla minaccia della mala; e quella del neo assunto Chris che si trova invischiato in una lotta tra gang.
Tanta carne al fuoco che diviene indigesta quando si decide di decuplicare i punti di vista: ogni personaggio ha idealmente una sua storyline che si va ad aggiungere alle due principali. Ma nessuno di questi ha una caratterizzazione solida: vivono di puro carattere, appoggiato sulle solide performance degli attori, o di qualche misero background messo lì giusto per giustificarne le azioni. Non si è mai partecipi dei loro drammi, non si riesce ad empatizzare con loro a causa della mancanza di spessore. Il dramma, in generale, manca e le azioni si svolgono in modo freddo su schermo, lontane kilometri dall'attenzione dello spettatore, che può solo assistere al gelido e veloce dipanarsi degli eventi.




Persino il cast stellare non riesce a salvare l'esito della storia; nonostante l'impegno, il personaggio di Kate Winslet, irriconoscibile e bellissima, non fa mai paura, quello di Ejiofor non muove ad empatia, quello di Aaron Paul sembra esistere solo per far procedere la storia, Clifton Collins Jr. si ritrova a vestire i panni del cattivo per dare una chiusa finale, mentre Gal Gadot sembra essere stata introdotta giusto per mostrare su schermo le sue belle gambe.
Si ha la sensazione, sopratutto nei primi minuti, di assistere non ad una storia concepita non per un lungometraggio cinematografico, ma per una serie televisiva della quale ci si è perso il primo atto, mancando ogni forma di introduzione decente a storia e personaggi principali; smarrimento che non passa mai, sopratutto a causa dei colpi di scena improbabili o, peggio, telefonati in anticipo.






Tanto che a salvare la baracca, oltre al cast, resta unicamente la mano di Hillcoat, sempre solida e spettacolare, nonostante questa volta decida di affidarsi di più al montaggio per la costruzione delle scene. L'uso della fotografia per gli interni, con colori caldi e saturi, è semplicemente spettacolare, così come l'esecuzione delle sequenze d'azione, tese e precise al punto giusto.





Forma che rende digeribile un contenuto insipido e freddo. Difetti che affliggevano, guardacaso, anche i due precedenti film di Hillcoat, ma che qui oltrepassano il limite di sopportazione. Il che è davvero un peccato.

martedì 26 aprile 2016

Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo

 Close Encounters of the Third Kind

di Steven Spielberg.

con; Richard Dreyfuss, François Truffaut, Teri Garr, Melinda Dillon, Bob Balaban, Cary Guffey.

Fantascienza

Usa 1977















Il monumentale successo de "Lo Squalo" (1975) impresse definitivamente il nome di Steven Spielberg nel pantheon di Hollywood. Era nata una stella, un regista in grado di confezionare pellicole capaci di polverizzare record al box office e che al contempo riuscivano a soddisfare persino la critica. Spielberg potè quindi avere carta bianca per il suo prossimo progetto, il quale era il più ambizioso e personale avesse affrontato sino ad allora: un film di fantascienza con al centro un contatto tra l'essere umano ed una civiltà aliena, dove quest'ultima, praticamente per la prima volta al cinema, non aveva intenzioni ostili.
Ottenuto un grosso budget, la collaborazione di Douglas Trumbull per i complicati e perfetti effetti speciali, quella di Paul Schrader alla sceneggiatura (che però dovette ritirare il suo nome a causa delle numerose riscritture effettuate dal regista) e di ben cinque direttori della fotografia (tra il quali il magico duo dell'epoca Laslo Kovacs e Vilmos Zsigmond), Spielberg crea un film unico, a tratti perfettamente poetico, ma anche frammentario e talvolta contraddittorio.




"Incontri Ravvicinati" è la storia di un contatto extraterrestre declinata sotto due punti di vista; da un lato c'è Lacombe (il grande François Truffaut), lo scienziato, ossia l'approccio serio e razionale, il quale assiste con occhio curioso a fenomeni incredibili, come il riapparire di veicoli scomparsi da decenni il luoghi improbabili, quale il Deserto dei Gobi o quello messicano; dall'altro c'è Roy (Richard Dreyfuss), l'uomo comune, il membro della working class americana dalla quale lo stesso Spielberg discende, la cui vita viene sconvolta, rivoltata come un calzino dall'arrivo degli UFO.
Il loro punto di vista rappresenta l'ambivalenza con la quale ci si approccia ad un mistero più grande dell'Uomo: la curiosità intellettiva, l'ossessione viscerale; il Mistero domina entrambi, svelandosi un pò alla volta nel corso della pellicola, tramite indizi sempre più curiosi.
L'idea di far comunicare gli alieni mediante la musica, per quanto semplicistica sul piano della verosomiglianza, appare vincente su quella stilistica; le celebri cinque note del tema (tra le quali vengono inserite anche quelle iniziali de "Lo Squalo") divengono così sinonimo di incognita e meraviglia, di grandezza e stupore. Stupore dinanzi al quale Spielberg si inginocchia come un bambino: il suo sguardo è umano, profondo per quanto naif; da qui la scelta azzeccatissima di regalare il ruolo dello scienziato a Truffaut, colui che più di ogni altro riusciva a trattare con leggerezza tematiche umane senza mai scadere nel superficiale.




Quello di Roy è invece un percorso più arzigogolato; vive in un nucleo familiare per la prima dipinto come ricettacolo di incomprensioni e brutture; Roy è un vero e proprio prigioniero di un luogo dove la sua curiosità ed il suo entusiasmo non trovano apprezzamento. Nel ritrarre il distacco progressivo e il conflitto tra lui e la moglie, Spielberg si rifà apertamente ai dettami della Nouvelle Vague, seguendo con il suo sguardo le peripezie ed i battibecchi dei personaggi nello spazio della loro abitazione, che diviene luogo filmico claustrofobico.
Uno sguardo che si fa via via più marcato: il distaccamento dalla famiglia e l'avvicinamento al mistero portano Roy ai limiti della pazzia, ad una forma ossessivo-convulsiva di ricerca della visione (la Devil Tower, luogo dell'incontro) che gli aliena definitivamente le simpatie dei congiunti. L'istituzione familiare finisce per la prima ed unica volta nella filmografia del regista per esplodere al fine di liberare l'uomo comune, ora libero di perseguire il suo scopo. Torna ancora, grazie ai riferimenti stilistico-estetici, l'importanza della figura di Truffaut, ma Spielberg non riesce ad essere all'altezza del modello: il percorso di Roy è troppo artefatto, troppo sopra le righe per essere verosimile, dimostrazione dell'incapacità dell'autore di raccontare (all'epoca) storie troppo reali.






Il vero valore del film risiede però nel terzo atto, dove Spielberg descrive con efficacia l'incontro con la civiltà aliena. L'uso della musica e dei suoni, la coordinazione tra set ed effetti speciali e le scelte stilistiche sono semplicemente perfette. L'emozione sgorga sincera quando lo sguardo di Truffaut si posa speranzoso su quelle luci, quando la musica fa ballare quei fantomatici ed affascinanti dischi volanti e quando i visitatori si mostrano allo spettatore.
Celati per tutta la durata del film, proprio come lo squalo del film precedente, gli alieni di "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo" inondano lo schermo nel finale con le loro forme umanoidi vagamente inquietanti, eppure incredibilmente espressive; gli effetti speciali del grande Carlo Rambaldi riescono a dare vita con poco a creature vive e tangibili, visitatori totalmente alieni nei tratti somatici, ma decisamente umani nelle espressioni. 








Effetti speciali che rubano la scena al resto per creare immagini indelebilmente poetiche ed affascinanti, giustamente entrate nell'immaginario collettivo. 
Gli alieni di Spielberg sono una razza pacifica, una sorta di scienziati dello spazio incuriositi dai terrestri così come questi lo sono dai fenomeni ufologici; alieni giunti sulla Terra per studiare l'uomo, per comprenderlo nel suo essere più inconscio; tanto che alla fine il "prescelto" è proprio quel Roy incarnazione dell'umanità più comune.
Una visione dell'ignoto, quella di Spielberg, originale ed edificante, che però cade in contraddizione con quanto mostrato nel secondo atto; perchè costruire la scena del rapimento del piccolo Barry come un vero e proprio horror? Queste forme di vita non sono forse esseri senzienti che perseguono scopi pacifici?
Contraddizione che si spiega, forse, se si tiene conto dell'influenza subita dall'autore, il quale, sulla scorta della visione dei classici del cinema europeo, ha deciso di fondere "generi" e registri all'interno di unica narrazione; senza tuttavia riuscire a controllarne il contenuto, che finisce così per contraddirsi.




Al punto che "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo" finisce per essere un'esperienza frammentaria e convulsa: a tratti poetica e rigorosa, a tratti confusionaria ai limiti del ridicolo. Un "pastiche" sempre emozionante, che cerca sempre di dare al pubblico ciò che vuole: meraviglia, risate, spaventi ed incanto; pagando però il prezzo della credibilità.




EXTRA

Tra gli epiteti più famosi affibbiati a Spielberg c'è il celebre "eterno Peter Pan", dato a causa della sua capacità di relazionarsi con attori bambini. Trend inaugurato proprio con "Incontri Ravvicinati", dove il piccolo Cary Guffey, l'interprete di Barry che all'epoca aveva solo cinque anni, divenne il suo attore preferito; la sintonia tra i due era perfetta al punto di riuscire ad avere la reazione desiderata dal piccolo interprete già al primo ciak.




Guffey continuò a recitare sino al 1985, per poi ritirarsi a vita privata. Subito dopo aver collaborato con Spielberg, interpretò altri due film a tema fantascientifico, ricoprendo questa volta il ruolo dell'alieno: era il piccolo H725 negli sgangherati (ma divertenti) "Uno Sceriffo Extraterrestre... poco Extra e molto Terrestre" (1979) e "Chissà perché capitano tutte a me" (1980).



martedì 19 aprile 2016

Suspiria

di Dario Argento.

con: Jessica Harper, Stefania Casini, Flavio Bucci, Udo Kier, Alida Valli, Miguel Bosé, Susanna Javicoli, Eva Axèn, Rudolf Schundler.

Horror

Italia 1977















---CONTIENE SPOILER---


Era impossibile per Dario Argento continuare ad insistere nell'ambito del thriller all'italiana; non dopo aver diretto "Profondo Rosso" (1975), apice supremo del filone nonché summa massima di tutto il suo cinema sino ad allora.
Impossibilità che lo portò ad allontanarsi da quel genere per un tutto sommato breve periodo di tempo, durante il quale ha potuto sperimentare nuove formule per creare tensione e continuare a declinare le sue ossessioni e le sue paure.
Prima tappa di questo nuovo corso della sua carriera è "Suspiria", primo vero horror diretto dal (ex) maestro romano; un horror atipico, vicinissimo all'estetica del sommo Bava (in particolare al gotico di "Operazione Paura" e "I Tre Volti della Paura") e nella narrativa vicino alle fiabe, al fantastico più che all' horror convenzionale. Tanto che, per l'assunto di base e per la splendida atmosfera, "Suspiria" può essere definito come una vera e propria favola dalle tinte splatter, nonché il suo secondo, indiscutibile, capolavoro.





La giovane Suzy Bannion (Jessica Harper), aspirante ballerina, arriva dagli Stati Uniti a Friburgo, in Germania, per cominciare a frequentare una prestigiosa accademia di danza. Il giorno dopo il suo arrivo viene a sapere della morte di una giovane allieva, che aveva incrociato proprio la sera prima, massacrata da uno sconosciuto. Come se non fosse abbastanza, all'interno delle mura della scuola si respira una strana atmosfera, come se le stesse celassero un mistero arcano.





Argento si rifà all'horror fantastico di matrice baviana senza tuttavia rimarcarne pedissequamente gli elementi; trova una propria dimensione in una struttura narrativa che fonde il mondo fiabesco con influenze thriller, ancora in parte presenti. La costruzione della tensione è sempre in crescendo, così come quella narrativa; il mistero che giace tra le mura della scuola trova una risoluzione solo nel climax, benchè anticipato già nel secondo atto.
La costruzione di storia e personaggi è invece lontana anni luce dal modello classico. Nel copione originale, le già giovani protagoniste erano dodicenni, ma per motivi di censura si è deciso di aumentarne l'età anagrafica, senza tuttavia cambiarne caratterizzazione e dialoghi. Un senso di naif puro ne avvolge le parole e le azioni; Suzy, benché adolescente ed interpretata da un allora ventottenne Jessica Harper, è una vera e propria bambina, una sorta di Alice persa in un mondo orrorrifico, che esplora e ai cui orrori reagisce in modo innocente, quasi primordiale, senza mai razionalizzare gli eventi. A differenza di quanto accadeva nei precedenti thriller di Argento, dove il protagonista era sempre maschio e adulto, alle prese con un mistero che però risolveva tramite un mix di raziocinio e intuizioni inconsce.




Un mondo fantastico che Argento colora in modo irreale per raggiungere un'atmosfera onirica: "Suspiria" è un incubo in technicolor, l'ultimo esponente italiano (nonché il più riuscito) della scuola estetica di Mario Bava, con colori dalle giustapposizioni forti, cromatismi talmente saturi da divenire vere e proprie cascate di colore; una fotografia talmente ricercata e anomala che Luciano Tovoli dovette sperimentare una tecnica apposita ed inusuale per ottenerla: girò tutto il film con la classica pellicola Eastman Kodak, il cui "eastmancolor" donava già di per sé una forte pastosità alla luce, per poi stampare il girato in techicolor a tre colori, tecnica all'epoca già obsoleta; il colore risulta così talmente vivo da sembrare uscito da una pellicola degli anni '50, donando all'atmosfera una deriva bizzarra che si sposa perfettamente con l'onirismo ricercato.





Fotografia che si sposa magnificamente con lo stile di ripresa di Argento. Abbandonati in parte i fluidi movimenti di macchina di "Profondo Rosso", limitati a pochi inserti girati per la prima volta con l'allora avvenieristica steadycam, la visione dell'autore si concentra in singole inquadrature dalla geometricità sconvolgente. Gli omicidi e le azioni dei personaggi vengono così racchiuse in piccoli quadri dalla composizione certosina, tanto che, più che a Mario Bava, gli esperimenti estetici riportano alla mente la fotografia di "Giulietta degli Spiriti" (1965) di Fellini.






Lo stile narrativo è invece il medesimo: gran parte del mistero viene risolto grazie ai ricordi della protagonista, alla rielaborazione (solo per questa volta prettamente razionale) di quanto visto ed ascoltato nella prima sequenza, nella forma di improvvisi flaschback che riaffiorano alla mente.
La sperimentazione stilistico-esteca si riverbera, semmai, nelle celeberrime sequenze di morte, che assumono una valenza splatter ancora più marcata, unita al gusto per un dolore fisico facilmente avvertibile dallo spettatore, in modo da renderne la visione ancora più dolorosa. Almeno due sono gli omicidi giustamente entrati nell'immaginario collettivo: l'uccisione di Pat, contro la quale una forza invisibile si accanisce sino ad impiccarla in un bagno di sangue cremisi; e la morte della co-protagonista Sara, letteralmente annegata nel filo spinato.




Il risultato è un horror bizzaro, in cui lo stile gotico abbandona definitivamente l'origine vittoria e mitteleurpea (presenti solo nel nome dell'ambientazione) per tingersi nei colori vivi della modernità. Un horror che si allontana da molte delle convenzioni per trovare in una dimensione onirica, fiabesca e surreale la chiave per una sperimentazione visiva sfrenata. Una vera e propria esperienza sensoriale, unica, avvolgente e sconvolgente.





EXTRA


Il personaggio di Pat Hingle, interpretato dall'attrice svedese Eva Axèn







condivide il nome (molto probabilmente non a caso) con un personaggio reale:







Apprezzato caratterista americano, attivo sia nel cinema che in televisione, Pat Hingle (scomparso nel 2009 all'età di 84 anni) ha preso parte a quasi 200 produzioni, tra le quali "Coraggio... fatti Ammazzare!" (1983), "Elvis" (1979) di John Carpenter e "Rischiose Abitudini" (1990); il suo ruolo più celebre resta però quello del Commissario Gordon, che ha interpretato in tutti e quattro i film di Batman degli anni '90.

giovedì 14 aprile 2016

Mary

di Abel Ferrara.

con: Matthew Modine, Forest Whitaker, Juliette Binoche, Heather Graham, Marion Cotillard, Stefania Rocca, Marco Leonardi, Elio Germano, Luca Lionello.

Usa, Italia, Francia 2005

















La ritrovata ispirazione de "Il Nostro Natale" (2001) consente a Ferrara di riottenere il plauso della critica, ma come al solito i produttori americani fecero spallucce; il suo cinema, così dirompente, scandaloso, forte e profondo mal si coniugava (e si coniuga tutt'oggi) con il sistema produttivo di serie A, ma anche, per paradosso puro, con il circuito indipendente. Per il grande autore non resta così che cercare fondi in Europa, dove invece veniva e viene tutt'oggi considerato come uno dei più importanti autori americani e mondiali.
Per il suo film successivo, Ferrara rispolvera un soggetto di circa dieci anni prima, "Go-Go Tales", che inizialmente avrebbe dovuto avere la forma di un telefilm, nelle parole dell'autore una specie di "Cin-Cin con le tette". Ad interessarsi al progetto è, incredibilmente, un piccolo gruppo di aspiranti produttori italiani, che portano l'autore a Roma. Malauguratamente, il progetto entrerà in un limbo produttivo sino al 2007 a causa dell'inconsistenza della produzione: i finanziatori, vera e propria "Armata Brancaleone" del mondo della celluloide, non solo non riuscirono a trovare i fondi necessari, ma si dimostrarono persino totalmente incapaci di gestire le più basiche forme di pre-produzione necessaria.
Amareggiato, Ferrara riusce tuttavia a trovare in Roberto De Nigris una figura di riferimento nel Bel Paese, il quale si interessa ad un altro progetto dell'autore, un film più ambizioso e profondo: "Mary Magdalene", una biografia della Maddalena che si doveva intrecciare con l'esistenza di un giovane regista chiamato a dirigerne un film, che nelle intenzioni originali doveva essere interpretato da Monica Bellucci e Vincent Gallo. Tuttavia, i fondi necessari per un grande film in costume erano oltre la portata di De Nigris e soci e Ferrara deve "riscalare" il film. Il risultato, "Mary", è la sua opera più complessa e radicale, un saggio dirompente ed ipnotico sulle ragioni della Fede e sulla sua incontestabile necessità.






In una complessità narrativa e metanarrativa inusitata nel suo cinema (se si eccettuano pochissime eccezioni), Ferrara sviluppa il discorso su tre piani; il primo, più prominente, è quello intimista: tre personaggi compiono un percorso di realizzazione sulla Fede; l'attrice Marie Palesi (Juliette Binoche), reduce dalle riprese di "This is my Blood", kolossal sulla vita di Cristo, attua un transfert definitivo sul personaggio di Maria Maddalena e, al pari della protagonista di "Persona" (1966), scopre un vuoto interiore che la porta a raggiungere una forma di illuminazione dal e verso il Divino. Il regista Tony Childress (Matthew Modine), autore del film ed interprete di Gesù, continua volontariamente a sguazzare nel dubbio e in una vita vuota, priva di vere motivazioni, salvo realizzare, mediante la visione della sua stessa opera, la sua situazione. Ted Younger (un intenso, straordinario Forest Whitaker), conduttore televisivo la cui trasmissione si sta occupando della vita e dei misteri del Figlio di Dio, si avvicina alla storia di Childress e della Palesi per scoprire la Fede.
Tre personaggi che, nella tradizione dell'autore, sono privi della Grazia; tre persone che vengono redente, forse, in qualche modo cambiate dalla vicinanza con l'inspiegabile, con l'insondabile, con quel "silenzio di Dio" che li turba, li affascina; un percorso, il loro, non necessariamente positivo: Marie, persa in Gerusalemme, pur forte di una fede insindacabile, non trova una catarsi definitiva: il suo stato, benché di Grazia, è lontano dalla pace, in quanto vessa in un luogo martoriato dalla violenza. Childress, pur perso nelle lacrime della realizzazione, scopre una fede del tutto circostanziale. E' il solo Younger a giungere ad una definizione della sua esistenza: il dolore fisico, inflitto durante un attacco di un gruppo di contestatori, quello emotivo, dovuto alla paura per la perdita del figlio neonato, lo portano a scoprire il mistero divino, razionalizzato mediante la sua trasmissione, per poi realizzare le sue mancanze, il suo egoismo, il suo status di peccatore.





Secondo piano narrativo, il più semplice e diretto, è quello del film nel film: "This is My Blood" è una ricerca (o per meglio dire la rappresentazione di una ricerca) del divino da parte di un autore. In esso ritroviamo i frammenti di quell'opera originariamente concepita e mai compiuta, che diviene ora dimensione allegorica e veritiera; la vita del Cristo e le sue opere rivivono in Maria Maddalena, nelle sue parole, riprese dai Vangeli Apocrifi; l'insegnamento è lì, a portata di visione, eppure così lontano, difficile da acquisire; la rappresentazione del sacro è mezzo catartico dirompente, rivoluzionario, quasi scandaloso, eppure estremamente fallace; facile rivedere, nella calma della messa in scena, nei dialoghi volutamente didascalici e nel tono placido e sacrale, una critica a quel "La Passione di Cristo" (2004) che poco tempo prima aveva sbancato i botteghini trasformando la figura di Gesù in carne da macello; ma Ferrara va oltre: purga il messaggio divino di ogni orpello, ogni abbellimento di sorta, per presentarlo in maniera diretta allo spettatore, come il Pasolini de "Il Vangelo Secondo Matteo" (1964).






Terzo piano, il più metalinguistico, è il discorso che Ferrara intavola direttamente con lo spettatore. Il mistero della fede, il mistero sulla vita del Cristo, sulla sua relazione con gli apostoli e la figura della Maddalena sono lasciati tali; non viene presa posizione a riguardo, anzi gli inserti documentaristici anzicché chiarificarne gli aspetti rendono il tutto più complesso. La via della Fede e le figure che la compongono sono troppo grandi per essere rappresentati adeguatamente: l'unica forma che possono assumere è quella del film nel film, della scarna semplificazione. A Ferrara interessa invece mostrare il contrasto tra il messaggio evangelico, tra il percorso di redenzione dei suoi personaggi e la violenza che insanguina le strade di Gerusalemme come di New York; una violenza cieca e sorda, che non si pone domande sul contenuto della fede e che anzi accetta come un diktat al solo scopo di ferire e distruggere tutto ciò che non gli si conforma; i contestatori che picchettano il cinema al pari dei soldati israeliti sono le controparti dei Romani e del Sinedrio che uccidono la Parola di Dio in modo ottuso.







"Mary" finisce per rappresentare, così, l'opera più dubbiosa di Ferrara, ma anche la più sensibile; una sorta di rito di purificazione da ogni preconcetto, ma anche da ogni certezza; un atto di fede su celluloide che porta ad una riflessione urgente e feconda; un'opera piccola, microscopica, vergognosamente inosservata, eppure ineludibilmente titanica nei suoi contenuti.





EXTRA

Lo stress, il rapporto di odio verso il sistema hollywoodiano, la passione smodata per l'Italia, le incazzature, i voltafaccia dei produttori e degli scalcinati businnessmen che si sono affiancati a Ferrara sono stati immortalati in un sorprendente documentario: "Odyssey in Rome" di Alex Grazioli, da qualche tempo disponibile in Italia nell'archivio streaming di Netflix.






La fatica disumana e le umiliazioni subite prima, durante e dopo la lavorazione di "Mary" hanno fortunatamente ripagato il loro autore: presentato al Festival di Venezia nel 2005, il film è stato premiato con il Gran Premio della Giuria, tutt'oggi il più importante e prestigioso riconoscimento ottenuto (giustamente) da Abel Ferrara.


giovedì 7 aprile 2016

Strade Perdute

Lost Highway

di David Lynch.

con: Bill Pullman, Patricia Arquette, Balthazar Getty, Robert Blake, Michael Massee, Robert Loggia, Gary Busey, Lucy Butler, Natasha Gregson-Wagner, Henry Rollins, Richard Pryor.

Usa, Francia 1997















---CONTIENE SPOILER----



La freddissima accoglienza riservata a "Fire walks with Me" (1992) non impedì a Lynch di continuare nel suo percorso artistico, che, da quel momento in poi, divenne in costante evoluzione. Già la trasposizione su Grande Schermo dei personaggi di Twin Peaks gli consentì di creare un nuovo registro stilistico-narrativo, di addentrarsi sempre più a fondo nel subconscio dei personaggi per creare una forma filmica nuova ed ancora più personale; il passo successivo è "Lost Highway" (il titolo italiano, virato al plurale, è un pò fuorviante), nel quale Lynch si addentra ulteriormente nella mente del suo/dei suoi personaggi, continuando il procedimento astrattivo per giungere ad una prima e compiuta attività di decostruzione narrativa.





Perché "Lost Highway" è, nelle parole stesse del suo creatore, un film di genere, in particolare un noir, ancora più di "Twin Peaks", del quale sempre a sua detta condivide anche l'universo narrativo; e dalla tradizione americana riprende la trama ed alcuni elementi portanti, come il personaggio della femme fatale (Patricia Arquette, che Lynch carica di una sensualità carnale immensa), l'omicidio passionale, la secchezza dei dialoghi ed in generale l'ambientazione urbana, oltre che i rimandi al classico "Vertigo" (1958), dal quale viene in parte ripreso in parte il tema della dualità.
Lynch e Barry Gifford (già autore del romanzo alla base di "Cuore Selvaggio", qui sceneggiatore), tuttavia, distruggono il materiale di partenza, in questo caso il romanzo "Night Creatures", aggiungendo elementi estranei, eliminandone alcuni essenziali per creare una narrazione convulsa, stratificata, volutamente contraddittoria, iniettando nella messa in scena rimandi, simbolismi e metafore volutamente criptiche o autoreferenziali.







Cercare di dare un significato logico alla narrazione non è impossibile: gli elementi logici ci sono tutti, frastagliati e dispersi nel corso della durata; ma ricostruire scientemente gli avvenimenti sarebbe inutile, toglierebbe fascino ad un'opera che più che capita, va compresa, nel senso genuino di intesa tramite una ricezione non conscia; un'opera che è di fatto sogno o allucinazione, visione di eventi più che descrizione degli stessi; i rimandi anche visivi, in merito, non mancano, con le trasfocature ed i fuori-fuoco che indicano come quello che viene mostrato non è che una visione del reale filtrata tramite il punto di vista del suo protagonista.





Protagonista a cui Lynch concede, genialmente, un volto insolito, quello di Bill Pullman, attore dai lineamenti tipicamente americani e gloriosamente benigni; interprete che sino a qualche prima incarnava solo il lato più sereno della società americana: il buon padre di famiglia e il presidente-cowboy picchia-alieni di "Independence Day" (1996); e che qui veste i panni di un uxorcida, un assassino passionale e deviato.




La comprensione del punto di visto è la prima delle chiavi di volta per disvelare il mistero celato tra i fotogrammi; tutto a quello a cui assistiamo non è che la rielaborazione dei fatti da parte di una mente deviata (o frammentata) il cui punto di vista viene ripreso in toto dalla messa in scena.
Fred non accetta il reale, lo rifugge: così come afferma ai due poliziotti; preferisce ricordare le cose a modo suo, ossia rielaborarle nel modo più consono alla sua coscienza attiva ed al suo io inconscio; da qui il disprezzo per la registrazione video, che nell'universo filmico lynchiano assume, almeno qui, la funzione di "registrazione oggettiva", simile alla fotografia per Louis Malle in "Ascensore per il Patibolo" (1958). Da qui anche la tematica del porno che tornerà più in avanti, intesa come registrazione di un atto reale, non simulato.
La prima crepa nella sua realtà arriva con la consegna di una VHS, appunto, che riprende l'interno del suo appartamento. Appartamento che è la prima e sola "dark room" in senso convenzionale del termine: le mura di casa di Fred si fanno, nella prima parte, sempre più strette, l'illuminazione sempre più contrastata; sebbene sin dall'inizio la tensione tra lui e la moglie Renèe sia avvertibile, il vero orrore celato comincerà a pulsare a poco a poco sotto la patina di apparente normalità, proprio come in "Twin Peaks" e "Velluto Blu" (1986). Orrore che si svela per la prima volta quando Fred decide di varcare quella soglia del buio insita nella dark room, al pari di Cooper, ma a differenza sua la trasformazione in un doppio malvagio non avviene, almeno non in via convenzionale ed esplicita; il suo "male" viene celato agli occhi dello spettatore dalla rimozione del reale: l'omicidio viene mostrato solo tramite il video, ossia quello strumento in grado di escludere il punto di vista del protagonista.




Ed è questo punto che il meccanismo di rimozione psichico scatta in modo eclatante: Fred muta in Pete (Balthazar Getty), ossia si astrae dalla sua identità per assumerne una nuova, diversa. La storia di cui sarà protagonista di qui in poi Pete è però del tutto collaterale a quella di Fred. Anche Pete incontrerà una Renèe, chiamata Alice, la quale esclamerà alcune delle stesse battute del suo alter-ego; il suo percorso distruttivo sarà simile a quello di Fred. In un'inversione temporale, Pete sarà chiamato ad interpretare (o a viverla per la prima volta?) la storia di Fred, ad uccidere, a scappare, ad innamorarsi della dark lady senza poterla possedere mai del tutto. Ad abbandonarla per scoprire poi il suo tradimento, ad uccidere di nuovo per castigare il suo amante ("Dick Laurent è morto") e poi ad uccidere Renèe; o forse no, forse solo a rivivere un'immagine residua di tali eventi come parte della mente di Fred.




Pete e Fred forse non sono i doppi l'uno dell'altro, così come non lo sono Renèe e Alice: forse sono lo stesso personaggio, due lati della medesima personalità che tende a frammentarsi sino alla disgregazione per ricostituirsi di volta in volta. Alla base di tutto c'è il rigetto del reale, di un evento o una serie di eventi che si rifiuta di affrontare e che, a loro volta, vengono disgregati in una serie di episodi, simboli, immagini e suoni cosparsi lungo il luogo filmico. Episodi che ritornano in parte come visioni, in parte come pellicole, film porno che mostrano il tradimento e l'omicidio; Fred e Pete sono, in sostanza, due corsie della medesima strada, che si rincorrono in cerchio; da qui la circolarità della narrazione, che inizia e finisce all'infinito, avvolta su sé stessa in un perenne giro di boa; un luogo filmico, appunto, non più una narrazione lineare: incipit ed epilogo coincidono; luogo che ha appunto la forma di una strada verso il nulla, o meglio verso sé stessa.






Fulcro del personaggio di Fred/Pete è il Mistery Man interpretato da Robert Blake; una figura, appunto, misteriosa, arcana, al quale il volto spigoloso dell'interprete dona un'aura malvagia, quasi luciferina. Una creatura sfuggente, che appare e scompare all'improvviso. La sua natura è un mistero: forse uno degli spiriti maligni che popolavano il mondo di Twin Peaks, in una declinazione urbana e vagamente decadente; forse la coscienza stessa di Fred, forse l'incarnazione del suo spirito distruttivo: al primo incontro con il jazzista, afferma come in realtà lui sia nel suo appartamento; qui, una volta rientrato, Fred "entra" nell'antro oscuro; ancora prima, in un'inquadratura di dettaglio, possiamo notare come nel camino arda un fuoco incessante, simbolo anche qui del peccato, del male primordiale insito nell'uomo.
Il Mystery Man presenzia all'uccisione di Dick Laurent (Robert Loggia), quel gangster talmente violento da pestare a sangue un tizio per il solo fatto di aver superato il limite di velocità; e dopo l'assassinio si rivolge a Fred puntandogli contro una videocamera ed esclamando: "Chi diavolo sei tu?". La frammentazione mentale di Fred lo porta, forse, ad una dissociazione totale con il suo stesso inconscio, che presa una forma autonoma non riconosce più sè stesso; e dinanzi al pericolo di vedere il male che ha dentro, Fred non può che fuggire.







Fuga che prima lo aveva portato in quel "Lost Highway Motel", vero e proprio non-luogo della mente dove risiede un'altra parte del rimosso, quel tradimento, sublimazione della pornografia, che scatena la violenza. Al cui placarsi, non c'è che un ritorno a sé stessi, un ripiegamento in quella dark room iniziale dove parte della coscienza ancora risiede, per completare, idealmente, la distruzione identitaria e perdersi, di nuovo, in una strada verso il nulla, sulle note sinistre ed ipnotiche di David Bowie.






EXTRA


Stando alle parole di Lynch, l'idea di un assassino in preda ad una crisi identitaria si è sviluppata inconsciamente grazie alla vicenda giudiziaria di O.J.Simpson; nel 1994 l'ex stella del NFL e attore venne accusato dell'omicidio dell'ex moglie Nicole Brown e del suo migliore amico Ronald Goldman; nonostante l'accusa fosse riuscita a provarne la colpevolezza grazie al test del DNA ritrovato sui resti delle vittime, Simpson fu scagionato con formula piena quando la difesa dimostrò, in modo in verità alquanto equivoco e sulla scorta di prove circostanziali, la mala fede degli inquirenti, accusandoli persino di razzismo. Durante le varie fasi del processo, Simpson rilasciò diverse interviste nelle quali appariva calmo, rilassato, quasi come se fosse, appunto, una persona diversa da quella che aveva compiuto gli omicidi.





In un allucinante inversione tra realtà e finzione, nel 2002 Robert Blake venne arrestato con l'accusa di uxorcidio della moglie Bonnie Lee Bakley; sebbene le circostanze della morte non siano mai state acclarate del tutto, le accuse del testimone chiave (lo stuntman Ronald Hambleton) si siano rivelate infondate e la Bakley avesse alle spalle una lunga, cupa e tormentata vita amorosa e familiare, Blake è tutt'oggi in prigione.