lunedì 31 ottobre 2016

31

di Rob Zombie.

con: Sheri Moon Zombie, Jeff Daniel Phillips, Richard Brake, Malcolm McDowell, Meg Foster, Larence Hilton- Jacobs, Kevin Jackson, E.G. Daily, Jane Carr, Pancho Moler.

Horror/Splatter

Usa, Inghilterra 2016















Gli exploit di "Halloween" e "Halloween II" non hanno di certo giovato alla carriera di Rob Zombie: più che ricreare il mito di Michael Myers, hanno generato una reazione violenta da parte dei fanboys del killer con la maschera bianca, furiosi per il trattamento riservato al loro beniamino. E per quanto in parte riusciti (sopratutto il secondo film), rappresentano in un certo senso un passo indietro per un autore il cui stile è basato sulla rielaborazione personale di modelli classici piuttosto che nella riproposizione di stilemi ormai usurati.
Per questo con "Le Streghe di Salem" (2013), Zombie ha voluto cercare di fare qualcosa di nuovo: un horror più classico, lontano dalle derive splatter e disturbanti di "The Devil's Rejects" (2005), più concentrato sulle atmosfere sinistre e sul personaggio della protagonista. Esito riuscito e decisamente interessante, prova della sua versatilità.
Ma con "31", Zombie ritorna al suo cinema più viscerale, riprende in mano il registro splatter per elevarlo ad un gore ancora più efferato di quanto visto in passato e aggiunge alcune nuove influenze al suo stile. Il tutto in un film piccolo, costato appena un milione e mezzo di dollari (racimolati grazie al crowdfounding) e girato in 20 giorni; una pellicola volutamente poco ambiziosa, scarna fino alla scarnificazione, che gli permette di giocare in piena libertà con alcune mode moderne.




A fornire la base, questa volta, sono due serie in parte lontane dalle corde di Zombie; da un lato, quella di "Saw", l'unica vera saga horror generatasi nel corso degli anni '00, dal quale viene ripresa l'idea di un gruppo di persone intrappolate dentro un "dungeon" infestato di pericoli; mentre dall'altro vi è il fenomeno transmediale di "Hunger Games", dal quale viene ripresa l'idea di un gruppo di ricconi che assiste al massacro per il proprio ludibrio. Entrambi gli spunti vengono naturalmente rielaborati e calati in un contesto ancora più sinistro e disperato, lontano dalle derive umanizzanti che le hanno caratterizzate.
Vittime sacrificali sono cinque artisti itineranti, tra i quali figurano Meg Foster e ovviamente Sheri Moon, moglie e musa. La loro caratterizzazione è basilare e non aiuta al coinvolgimento: come i ragazzetti di "House of 1000 Corpses" (2001), non hanno tratti caratteriali forti; ma se nell'esordio Zombie lasciava volutamente i suoi personaggi su di un piano bidimensionale in quanto pura carne da macello, il ruolo da veri protagonisti qui giocato dalle vittime rende la visione fredda; non si riesce a parteggiare per loro, né si è più di tanto scossi dalla loro dipartita. "31" finisce così per essere una visione puramente intellettiva, dove il divertimento deriva più che altro dalla messa in scena.




Sempre dal passato torna il setting settentiano, il white trash e il gusto per la secchezza. Abbandonate le geometrie rigorose di "Le Streghe di Salem", Zombie torna a costruire le sequenze in modo brutale, con inquadrature strette e sghembe e montaggio serratissimo per accentuare l'atmosfera malata e sporca.
Il suo immaginario è simile a quello di "House of 1000 Corpses", con clown assassini e rifiuti umani folli, ma si colora anche di una nota inedita: un rimando, doppio, alle fantasmagorie felliniane e al nazisploitation con la figura di Sick-Head (Pancho Moler), nano nazista che apre le danze del massacro. Ma la sua creatura più riuscita è qui Doom-Head, sorta di "boss finale" del gioco, incarnato dal ghigno storto di Richard Brake, una specie di Joker del white trash e nuova icona del cinema di Zombie dopo Capitan Spaulding.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: la trama basilare è puro pretesto per dar vita a sequenze macabre e crude, a dar sfogo al gore e alla cattiveria. I cattivi sadici e beffardi e le vittime brutalizzate fanno il loro gioco, nulla più nulla meno. Il tutto è quasi piatto, ravvivato dall'occhio dell'autore e dall'affiatamento del cast.




Ma pur puntando basso e sul sicuro, Zombie riesce a convincere grazie alla sua fantasia sadica e all'uso di un registro ancora più violento. Pur freddo e privo di sorprese, "31" è un film tutto sommato riuscito, folle e privo di speranza, cattivo e per questo estremamente divertente da guardare.




EXTRA


La critica gratuita, l'incapacità di un'analisi obiettiva, l'odio viscerale per tutto ciò che sia anticonvenzionale e lontano dai canoni: la mente dei fanboys è davvero un luogo ristretto e triste. Che finisce per sfociare nel ridicolo involontario quando decide di prendere di mira autori dotati di talento senza riuscire ad imbastire un discorso completo sul perchè dei loro fallimenti. E a Rob Zombie, in tal senso, è andata malissimo.
Basti vedere, in proposito, il canale YouTube di Horror Is Dead, dove l'utente dedica un'intero video di ben 30 minuti per distruggerne il lavoro. Senza riuscire mai a tirare fuori un ragionamento convincente che vada al di là del blando "fa tutto per soldi".



giovedì 27 ottobre 2016

Doctor Strange

di Scott Derrickson.

con: Benedict Cumberbatch, Mads Mikkelsen, Chiwetel Ejiofor, Tilda Swinton, Benedict Wong, Rachel McAdams, Benjamin Bratt, Scott Adkins.

Fantastico

Usa 2016
















Il 2016 è l'anno nel quale il fenomeno del cinecomic (nella forma della trasposizione da fumetto a film) ha raggiunto un culmine quantitativo. Davvero inusitato il numero di pellicole tratte da fumetti supereroistici che hanno invaso le sale: la sorpresa "Deadpool", il deludente ma molto più riuscito di quanto si voglia ammettere "Batman v. Superman: Dawn of Justice", la risposta targata Marvel "Captain America- Civil War", il dimenticabile "X-Men- Apocalisse", lo stralunato "Suicide Squad", senza contare l'uscita di "Batman: The Killing Joke" e l'italiano "Lo Chiamavano Jeeg Robot", che pur non essendo basato si di una matrice cartacea, omaggia in modo diretto il fenomeno cine-supereroistico.
A conclusione, nell'ultima parte della stagione, arriva il secondo film della Marvel Studios, forse uno dei più attesi, sicuramente quello con maggiori potenzialità: l'adattamento del visionario Dottor Strange, uno dei personaggi più singolari della Casa delle Idee. E tanto per cambiare, la sua trasposizione è a dir poco fiacca.




Creato da Steve "Spider-Man" Ditko nel 1963, Stephen Strange (l'allitterazione come al solito è d'obbligo) è un coacervo di tutte le influenze contro-culturali che all'epoca attraversavano l'America. Ex chirurgo la cui carriera è stata stroncata da un incidente d'auto, Strange diviene in breve tempo lo Stregone Supremo e si stabilisce nel Greenwich Village per dedicarsi alla difesa del piano esistenziale da minacce demoniache. Con Strange, Ditko introduce l'elemento fantastico di natura magica e sovrannaturale in un universo Marvel all'epoca principalmente caratterizzato da elementi fantascientifici e fantasy. Demoni transdimensionali, entità di stampo lovecraftiano, diavoli e maghi si riversano tra le pagine dell'albo, con disegni dai colori sgargianti, acidi, inni psichedelici alla fantasia più sfrenata, che di concerto alle opere fantastiche che di lì a poco il grande Jack Kirby firmerà, trasformerà il mondo della Marvel in una sorta di sogno surreale e allucinato, una fantasia hippie ancora oggi affascinante per la sua carica visionaria. A fronte, ovviamente, di storie naif, dove ogni forma di complessità (pur quella basica della Silver Age) viene bandita in favore della pura estetica.




Il film di Scott Derrickson è però solo il terzo adattamento delle avventure dello Stregone Supremo. Un soggetto tanto appetitoso, naturalmente, stuzzicava da anni le menti di registi e sceneggiatori. Già nel 1978, un primo progetto di adattamento vide la luce nella forma di un film omonimo: "Doctor Strange", oggi reperibile solo in VHS su suolo americano, è un piccolo film per la televisione, episodio pilota di una serie purtroppo mai iniziata, negli anni nei quali il piccolo schermo era la patria di perle come la serie sull'Incredibile Hulk con Lou Ferrigno o la più camp Wonder Woman con Lynda Carter. "Doctor Strange" rimaneva più o meno fedele ai personaggi dell'omonimo albo, variando solo in parte la caratterizzazione del protagonista (interpretato da Peter Hooter), ora erede della carica di Stregone Supremo in lotta contro la villain Morgana LeFay (una giovane Jessica Walter). Piuttosto che rifarsi allo stile visionario delle tavole di Ditko, questa piccola produzione riprende stile ed atmosfere dal filone horror demoniaco degli anni '70: i titoli di testa, davvero sinistri, sembrano quelli di un sequel apocrifo de "L'Esorcista" (1973), il prologo sembra uscito da un sandalone di Mario Bava intriso di visioni sataniste, mentre molte sequenze non sfigurerebbero in un horror gotico stile Hammer.
Nonostante gli scarsissimi valori produttivi, questa prima trasposizione riesce a tratti ad impressionare, tanto che viene da rimpiangere la mancata prosecuzione della serie, dovuta ad un flop di ascolti causato dalla messa in onda del pilot in contemporanea alla trasmissione degli ultimi episodi della storica serie "Radici".




Nel 1992 è invece il turno della Full Moon Productions di Charles Band a cimentarsi con una trasposizione delle avventure del Dottor Strange. Band, cresciuto con i fumetti di Ditko, comincia una trattativa per ottenerne i diritti già alla fine degli anni '80, ma i dirigenti della Marvel, preoccupati di un possibile flop come accaduto con gli adattamenti de Il Punitore e, sopratutto, Howard il Papero, tergiversano e fanno saltare ogni possibile accordo. Ma Band non demorde e crea "Dr. Mordrid" (in Italia distribuito con un titolo al solito strambo: "Invasori dalla IV Dimensione"), adattamento apocrifo del personaggio, privo degli iconici baffoni, eppure vicinissimo alle atmosfere e alle tematiche sovrannaturali del fumetto. Protagonista è un Jeffrey Combs al solito encomiabile nei panni di uno Stephen Strange non autorizzato, alle prese con una versione non ufficiale del demone Shuma-Gorath. Dal comic tornano tutti gli elementi caratterizzanti: lo status di Stregone Supremo di Mordrid, la minaccia extradimensionale, il richiamo ai diversi piani dell'esistenza, finanche il "sancta sanctorum", il rifugio del dottore nel Greenwich Village. Ed anche in questo caso, nonostante i valori produttivi risibili ed una trama basilare, il prodotto finale è dignitoso ed a suo modo divertente.




Questi due adattamenti flagellati da budget inesistenti, pur basandosi su mitologie e forme estetiche ben collaudate, riuscivano ad avere una propria personalità; il "Doctor Strange" di Scott Derrickson e del dio-demiurgo Kevin Feige ha invece un budget da kolossal, ma non ha un'anima.
Tutto ciò che appare su schermo per i 115 minuti di durata è derivativo o, nella migliore delle ipotesi, blando. A partire dal protagonista, Stephen Strange, al quale Cumberbatch regala la sua faccia da alienato e lo sguardo sardonico, ma non riesce a concedere un vero ed autonomo carattere. Strange è qui una sorta di cugino inglese del Tony Stark di Robert Downey Jr.: un genio egocentrico ed egoista dalla battuta sempre pronta, in grado di lanciare frecciatine e punchline da quinta elementare anche nel bel mezzo di un duello tra stregoni; l'unica differenza con il miliardario berlusconiano in armatura risiede nell'aplomb del proprio attore, che gli impedisce di cadere nei territori del tamarro smargiasso, ma nulla più.
Tutti gli altri personaggi sono puro contorno e totalmente funzionali: l'interesse amoroso che provvede a tutto (la McAdams, come al solito bellissima e sprecata, tanto che la sua sottotrama ad un certo punto scompare nel nulla), l'amico di colore più saggio (Chiwetel Ejiofor, qui per puri motivi alimentari), il saggio maestro che inizia l'eroe al suo cammino e ovviamente il cattivone di turno, al quale nemmeno il faccione di Mads Mikkelsen riesce a conferire vero carisma. Tra tutti, sono proprio questi ultimi due ad essere le figure più tartassate: il superamento del canonico confine tra bene e male, pur essendo parte essenziale dell'esilissima storia, non viene mai approfondito e alla fine licenziato con una battutina d'accatto che getta una luce sinistra involontaria su tutto il roaster di personaggi, prova di come lo script sia carta straccia.




Il curriculum horror di Derrickson non inganni: ogni visione, immagine e trovata qui è genuinamente derivativa. Le tavole psichedeliche dai colori acidi di Dikto tornano solo nel finale e in una sequenza a metà film nella quale la messa in scena si rifà più al campionario visionario kubrickiano che a quello cartaceo. Per il resto, tutte le visioni sono riprese dall' "Inception" (2009) di Nolan, con le architetture urbane trasformate in cubi di Rubik o in geometrie escheriane caleidoscopiche; i combattimenti che sfidano la gravità e che cambiano prospettive con il movimento dei personaggi sono anch'essi ripresi da Nolan, ma condotti con il pilota automatico, senza guizzi né tensione; la mancanza di personalità rende la mera influenza pura derivatività, sia nelle forme che nella palette di colori adoperata, con una predominante grigia che ha davvero poco a che fare con una storia a base di stregoni e dimensioni demoniache. Persino la fotografia in interni ricorda quella di Wally Pfister, al punto che arrivati alla scena dell'incontro tra Strange e l'Antico sembra di assistere ad una sorta di parodia di "Batman Begins".
E giusto per rendere il tutto più insipido, tutti i discorsi sul bene e sul male, sul misticismo, sui piani dimensionali e sulla forza della mente sono vuoti, affidati a dialoghi privi di mordente e incredibilmente verbosi, prova di come già in sede di script nessuno si sia adoperato più di tanto per dare un contenuto che sia uno ad un film troppo apertamente alimentare.





"Doctor Strange" è in sostanza il più classico film targato Marvel Studios che si possa immaginare: un prodotto piatto, privo di anima, tirato su solo per portare il personaggio su schermo, senza una vera visione alla base o anche la minima capacità di concedergli una dignità che non sia prettamente economica. I fanboys gioiscano, per tutti gli altri c'è solo disappunto.





EXTRA

In un mondo dove il Politically Correct è divenuto un imperativo ai limiti del marziale, si fa presto a scandalizzarsi per il cosiddetto "whitewashing" dei personaggi, ossia il cambiamento della razza per renderli più vicini all'estetica occidentale. Di recente si è fatto un gran parlare del casting di Scarlett Joahnsonn per il ruolo della protagonista nel remake di "Ghost in the Shell", lanciando accuse di razzismo a destra e a manca. La scelta di trasformare l'etnia di un personaggio può in realtà dipendere da diverse ragioni, non ultima quella commerciale: non esistendo una diva asiatica famosa anche in occidente, la Johanson diviene una scelta quasi obbligata.
Dal canto loro, invece, Derrickson e Feige non avevano certo un problema del genere al momento di scegliere l'attore che doveva incarnare l'Antico su schermo, personaggio di origini tibetane, il cui look ben avrebbe potuto essere incarnato da un qualsiasi attore orientale, come ad esempio Chow Yun Fat o Robin Shou. Ma allora perché prendere l'inglese Tilda Swinton?



Investito dalla domanda in occasione della presentazione del primo teaser del film, Feige si è giustificato affermando come il Tibet non sia una nazione e che per questo si sono dovuti adattare di conseguenza. Risposta che si può facilmente etichettare come razzista (e vien da chiedersi come potrebbe a sua volta rispondergli il Dalai Lama sentendola).
La verità forse è ancora più prosaica: "Doctor Strange", così come tutte le grandi produzioni americane, sta puntando sempre più verso il mercato cinese ed è inutile sottolineare il modo in cui il governo di Pechino vede la questione tibetana. Il whitewashing del personaggio forse è servito per non offendere gli investitori cinesi; e a quanto pare ha funzionato: la censura di regime proibisce la distribuzione su suolo nazionale di pellicole che "propagandano" tematiche sovrannaturali e superstiziose (basti vedere la mancata distribuzione del remake di "Ghostbusters", che ha fortemente danneggiato la Sony), ma a quanto pare la sua scure non si è abbattuta sull'ultima fatica di Feige. Potere del denaro.

venerdì 21 ottobre 2016

Halloween II

di Rob Zombie.

con: Scout Taylor-Compton, Tyler Mane, Malcolm McDowell, Sheri Moon Zombie, Danielle Harris, Brad Dourif, Margot Kidder, Chase Vanek.

Usa 2009


















---CONTIENE SPOILER---

Molto probabilmente, Rob Zombie passerà alla Storia come uno degli autori più fraintesi dei suoi tempi. Perchè, malgrado lo status di cult di alcuni suoi film (almeno "The Devil's Reject" e si spera "31"), sono davvero in pochi, anche sul piano della critica specializzata, a comprenderne ed apprezzarne lo stile e la "filosofia". Il che lo accomuna ad un altro regista americano, il re dei cult John Carpenter, proprio lui, che anni dopo la creazione del remake di "Halloween- La Notte delle Streghe", bollerà Zombie come uno "stronzo", malcelando una forma di rabbia verso quell'operazione.
Remake che tutt'ora rappresenta la prova meno convincente del regista ex frontman dei White Zombie; e che nonostante questo fu un buon successo di pubblico, tanto da meritare un sequel, arrivato nel 2009 e diretto sempre da Zombie, nonostante la sua iniziale ritrosia ad un coinvolgimento diretto. "Halloween II", a differenza di quanto si possa immaginare, non è un remake di quel "Il Signore della Morte" (1981) che continuava le imprese di Michael Myers in modo diretto, ma una continuazione di quanto fatto da Zombie nel suo remake: un approccio più personale alla materia data che, nuovamente, né la critica né i fans del killer dalla maschera bianca hanno apprezzato, stroncandolo in pompa magna.
Eppure, questo bizzarro sequel, a scanso di equivoci, fraintendimenti ed aspettative tradite, è uno dei lavori più interessanti dell'autore, dove lo spaccato psicologico si fonde con istanze visionarie per creare un che di unico, imperfetto ma di ottimo impatto.





Dall'origjnario seguito "Il Signore della Morte" torna l'idea dell'incipit, quella di far cominciare il tutto nel momento esattamente successivo alla chiusura del primo film; in maniera analoga a quanto accadeva in "Halloween- The Beginning", una parte del film è dedicata a "rifare" l'originale, in questo caso il primo atto, remake, appunto, del sequel del 1981. Tolto l'ingombrante fardello di ricreare qualcosa di già visto unicamente per dare il via alla narrazione, Zombie ha questa volta carta bianca sul resto (anche se la versione del film uscita al cinema non è la Director's Cut, reperibile sono in Home Video ed il Italia fuori catalogo da anni) e decide subito di disfarsi di quanto visto: la maggior parte di quanto accaduto nel primo atto è un sogno febbricitante; le uniche cose realmente accadute sono la sopravvivenza di Laurie e il fatto che Michael Myers sia ancora vivo.
Questo perchè "Halloween II" non è uno slasher, né un horror; epiteti di generi che calzerebbero stretto al lavoro qui svolto. Di fatto, non c'è una progressione lineare nelle uccisioni (ancora meno che in "The Devil's Rejects"), né la ricerca di una forma di tensione orrorifica vera e propria.
Al centro di tutto ci sono i due protagonisti, Laurie e Michael, con la loro psiche deviata e sconvolta. Lo sguardo di Zombie si addentra così nelle loro menti, scandagliandone le visioni e le paure, finendo per lasciare sullo sfondo ogni contorno convenzionale.






Ed in modo ancora meno convenzionale, apre il film con la spiegazione del simbolismo: il cavallo bianco, forse ripreso dal Lynch di "Twin Peaks", è sinonimo di innocenza e ferocia. Due facce della stessa medaglia, come i due fratelli.
Michael ha ora un duplice aspetto, uno adulto, poco più di un mezzo, un involucro dentro il quale si agita il bambino, che adesso ha il volto pulito di Chase Vanek, dalle fattezze angeliche che sostituiscono lo sguardo malefico di Daeg Faerch. Un bambino che segue le istruzioni del fantasma della madre (ancora interpretata dalla bella Sheri Moon), alla ricerca di una congiunzione letale con la sorella. Michael è ora più che in precedenza mostro e vittima, io perduto in un limbo creato dalla privazione della figura di riferimento, la madre appunto, che nella sua visione finisce per incarnare la sua ferocia e il suo senso di affetto perso.




Laurie, d'altro canto, vive negli isterismi di una Scout Taylor-Compton quanto mai credibile; una ragazza la cui mente è stata fatta a pezzi dalla violenza e alla quale la rivelazione della parentela con il suo incubo concede un colpo finale verso la follia definitiva. Punto d'arrivo che diverge a seconda della versione del film alla quale si fa riferimento: nella Theatrical Cut la sua violenza si riversa su Michael, finendo per abbracciare essa stessa la devianza indossandone i panni per precipitare nella pazzia più pura tramite una ricongiunzione simile a quella perseguita dal fratello; mentre nella Director's Cut l'atto distruttivo si rivolge verso un esanime dottor Loomis, causa della rivelazione sulla parentela, ma non si consuma del tutto e negli ultimi istanti di vita la sua psiche va definitivamente in pezzi. In entrambe le versioni, è l'immagine finale a coronare l'arco distruttivo: la madre con il cavallo bianco fa visita anche a lei, chiudendo il cerchio e riunendola al fratello in modo indiretto, per il tramite di quella pazzia che il sangue ha permesso di condividere. Meno riuscita è invece la trovata di sottolinearne la caduta in disgrazia agghindandola come una rocker sudicia, che sembra uscita da una fiction della RAI.






Centro narrativo rivolto alla psicologia dei personaggi che non impedisce a Zombie di eccedere nella violenza: la brutalità delle uccisioni, la maggior parte gratuite, è incredibile; Michael ora distrugge le vittime con colpi ripetuti sino alla nausea per disintegrarne i corpi; la violenza è brutale, ma spesso lasciata fuori scena. Così come brutale è lo stile: ancora più secco rispetto a "The Devil's Rejects" e più sporco, grazie all'uso della pellicola 16mm gonfiata in post-produzione a 32 mm ed all'uso di un montaggio ancora più serrato e claustrofobico.






Le visioni di Michael e Laurie sono puro surrealismo visionario applicato all'horror; andando oltre la contemplazione del cinema di Tim Burton, Zombie riprende le istanze del gotico e le libera dai riferimenti baviani per dar loro nuova forma: purgate dal simbolismo più criptico, si fanno pura estetica goth applicata al cinema, veri e propri incubi rock nel quale far perdere i personaggi; e nel quale Zombie comincia a sperimentare il gusto per la geometricità che poi esibirà in quelle di "Le Streghe di Salem" (2012)







Gusto estetico e profondità di scrittura che non impediscono a Zombie di cadere in un paio di trappole: troppo ovvio il ruolo svolto da Loomis, tanto da essere in parte inutile; e troppo scontata la scena dell'incidente con l'ambulanza, quasi ridicola nella sua esecuzione.
Difetti di scrittura che però non spiegano l'incredibile astio riservato al film. La spiegazione è forse molto basica, pur nella sua eccentricità: "Halloween II" è un film troppo poco convenzionale per essere davvero apprezzato da chi si aspetta poco da un film di genere. Non concede nulla agli spettatori meno esigenti, se non gli inserti splatter. Devia totalmente da ogni forma di schematismo che ci si potrebbe aspettare dal sequel di uno slasher, filone del quale ignora quasi tutti gli elementi. Si concentra totalmente sugli archi narrativi interiori dei personaggi e non fa ricorso a trucchetti per aumentare la tensione.
Viene in mente, a tal proposito, la metafora sulle "divinità incazzate" coniata da Joss Wheadon in "Quella Casa nel Bosco" (2012): quando non si dà il giusto rituale in pasto agli spettatori, questi si adirano. Successe nel 1982 con il sottovalutato "Halloween III- Il Signore della Notte", è successo nuovamente nel 2009 con questo nuovo exploit sulla Notte di Ognissanti. Forse è anche per questo che da allora Michael Myers è finito in pensione: era impossibile riprendere la narrazione da dove Zombie l'ha lasciata, è del tutto impensabile rifare da capo l'ennesimo slasher uguale a mille altri. E forse è bene così: è meglio chiudere la serie con l'immagine di Laurie che fissa lo spettatore e ghigna, apice che difficilmente sarà doppiato.

mercoledì 19 ottobre 2016

Opera

di Dario Argento.

con: Cristina Marsillach, Ian Charleson, Urbano Barberini, Daria Nicolodi, Barbara Cupisti, Carolina Cataldi-Tassoni, Antonella Vitali, William McNamara.

Horror

Italia 1987
















Nel 1987, il cinema di genere italiano era già entrato in crisi; la stagione dello spaghetti-western era già terminata, mentre l'horror e il "giallo" stavano ripiegando verso il mezzo televisivo, con esiti disastrosi. L'intero settore aveva già cambiato pelle: da onesti prodotti artigianali, intrisi di soluzioni visive ardite e contenuti scioccanti, i film di genere italiani si erano in parte trasformati in imitazioni a buon mercato dei cult-movies americani. Basti pensare, in proposito, alla sfolgorante carriera del produttore Fabrizio De Angelis, quasi interamente basata su prodotti "di imitazione" diretti, tra gli altri, dai tristemente famosi Bruno Mattei e Claudio Fragasso. In parole povere, il genere stava morendo: poche idee originali, pochi soldi, poca voglia di sperimentare, pochi soggetti dotati di vero talento.
In un tale panorama, Dario Argento rappresentava un'eccezione: forte di una carriera di tutto rispetto, costellata di incredibili successi di cassetta, poteva permettersi budget e troupe sempre adeguati alle proprie esigenze. Ed infatti, "Opera" rappresenta la sua produzione italiana più dispendiosa, ben 8 milioni di dollari, racimolati interamente dalla Cecchi Gori e dalla RAI, che gli permettono una libertà totale nella messa in scena. Peccato però che i soli valori produttivi non siano sufficenti alla riuscita.




"Opera" è la pellicola in cui Argento mette a frutto in modo compiuto le influenze principali del suo stile ed in genere del suo cinema; tolta quella, pur fondamentale, di Mario Bava, già sublimata con la collaborazione in "Inferno" (1980), qui le fonti di ispirazione sono gli imprescindibili Hitchcock e Michael Powell.
Dal capolavoro "Gli Uccelli" (1963), Argento riprende l'elemento faunistico: i corvi sono presenza centrale, sin dalla prima scena; ma anzicché ricoprire un ruolo negativo, hanno un'inedita veste positiva, divenendo strumenti per l'individuazione del "male". Sempre da Hitchcock è ripreso il gusto per il virtuosismo, che qui raggiunge un apice definitivo.
Dal capolavoro maledetto di Powell "L'Occhio che Uccide" (1960) tornano non solo le famose soggettive, ma anche e sopratutto il tema vouyersistico. L'assassino obbliga la protagonista a guardarlo mentre compie le sue gesta; lo sguardo è esso stesso strumento di morte e al contempo vittima della violenza, con l'escamotage disturbante degli spilli usati per tenere le palpebre aperte. La soggettiva è qui l'inquadratura più ricorrente, usata all'inverosimile per far identificare lo spettatore nei fatti: si va da quella classica dell'assassino a quella della protagonista, con tanto di visione "sporcata" dall'uso di collirio, sino al parossismo con l'uso di quella di un chiavistello nella sequenza finale.
Sul piano della storia, Argento si rifà invece al mito de "Il Fantasma dell'Opera": l'intero incipit è ripreso da parte del romanzo di Leroux, con la giovane e bella protagonista Betty (Cristina Marsillach) chiamata all'ultimo a sostituire la prima donna all'opera, a causa del gesto di un "mostro" che sembra vegliare su di lei.




L'altissimo budget permette ad Argento di sbizzarrirsi; Tutte le scene clou sono ambientate al Teatro Regio di Parma, mentre per gli altri interni sono allestiti dei set enormi, che permettono alla sua macchina da presa di muoversi in totale libertà. I virtuosismi della macchina sono incredibili, con movimenti fluidissimi ed azzardati, per creare uno stile elegante ai limiti del barocco, dove l'apice viene raggiunto nel climax, con la soggettiva del volo dei corvi, esempio perfetto dello stile visivo argentiano.
Eleganza che va di pari passo con l'efferatezza: "Opera" è anche il film più violento di Argento, dove la graficità delle morti raggiunge il culmine già a partire dal primo omicidio "importante", l'uccisione a coltellate dell'assistente di scena, che per brutalità fa impallidire persino la morte di Veronica Lario in "Tenebre" (1982).  Da antologia è anche la sequenza del colpo di pistola sparato attraverso lo spioncino della porta, ripreso con successo da "Saw II"(2005) e che lo stesso Argento replicherà a livello visivo, ma con esiti più modesti, in "La Sindrome di Stendhal" (1996)
Peccato che alla volontà di scioccare e alla capacità di stupire, si accompagnino degli errori tecnici e di scrittura a dir poco ridicoli.




Le soggettive in steadicam, per quanto eleganti, spesso sono troppo frettolose, con una macchina da presa troppo bassa per replicare il punto di vista di un essere umano, facendo sembrare le movenze di un killer quelle di un Jack Russell a spasso per il teatro dell'opera. Errore tecnico inusitato per il cinema di Argento (sino ad allora) e del tutto incomprensibile se si tiene conto dell'attenzione ai dettagli riservata in altri aspetti.
Sul piano narrativo, la sceneggiatura non si discosta di un millimetro dalla tradizione del "giallo", con un killer armato di guanti neri, motivato da un trauma del passato, un red herring fin troppo ovvio ed un colpo di scena rivelatore con tanto di doppio finale (questa volta fortemente debitore al "Red Dragon" di Thomas Harris). Mancanza di originalità a cui si associa un'esecuzione claudicante: davvero inverosimile la trovata di non far gridare o terrorizzare la giovane protagonista dopo l'aver assistito ad ogni morte; dopo ogni omicidio, si comporta in modo normale, come se solo qualche minuto prima avesse assistito ad uno spettacolo di varietà.
Ridicolo che raggiunge vette insostenibili una volta rivelata l'identità dell'assassino, dovuto ad un miscasting troppo evidente e che si trascina sino ad un epilogo semplicemente idiota ed inutile.




Tanto che "Opera" può essere considerato come il primo vero passo falso nella carriera di Argento, la prima crepa nella sua filmografia, che da qui in poi comincerà ad erodersi sino a crollare su sé stessa. Una pellicola ambiziosa, dove lo stile distrugge la sostanza ed il ridicolo involontario azzera ogni buona intenzione.

venerdì 14 ottobre 2016

Halloween- The Beginning

Halloween

di Rob Zombie.

con: Tyler Mane, Scout Taylor-Compton, Malcolm McDowell, Sheri Moon Zombie, Daeg Faerch, William Forsythe, Danielle Harris, Brad Dourif.

Horror/Thriller

Usa 2007














Buffa sorte quella toccata alle icone della New Wave del horror americano; nate come strumenti per terrorizzare i benpensanti, inondando con fiumi di violenza grafica un genere stantio, si sono ritrovate, nel giro di pochi anni, ad essere non solo icone pop, ma anche perfetti marchi da rivendere al pubblico.
In questo senso, appare del tutto normale come a partire dai primi anni '00, ogni singolo film di quel periodo sia stato rifatto, in remake che si allontanavano totalmente dallo spirito dell'originale. Dopotutto, le condizioni sociali ed artistiche che avevano portato alla creazione di classici come "L'Ultima Casa a Sinistra" (1972), "The Texas Chainsaw Massacre" (1974) o "Nightmare- Dal Profondo della Notte" (1984) erano profondamente mutate nel corso dei decenni e non si poteva, di conseguenza, pretendere che pellicole nate con il solo scopo di capitalizzare sul nome di un successo passato fossero al pari dell'originale.




Se la Platinum Dunes di Michael Bay aveva già ricreato Leatherface nel 2003, con buoni esiti di pubblico ed in parte anche di critica, era solo una questione di tempo prima che anche l'imprescindibile "Halloween- La Notte delle Streghe" (1978) fosse sottoposto ad un restyling che lo privasse dell'anima. Dopotutto, già nel 2000 la serie era giunta ad un punto morto, con un settimo capitolo a dir poco disastroso, dopo che anni di sequel stanchi, storyline piatte e persino dopo che lo stesso John Carpenter aveva fallito nel tentativo di ridare linfa vitale alla saga con "Halloween III- Il Signore della Notte" (1982), con il quale si sarebbe dovuta trasformare in un'antologia dell'orrore. Resettare il tutto era la scelta più azzeccata dal punto di vista dei produttori e Malik Akkadd, subentrato al padre Moustapha che aveva finanziato l'exploit di Carpenter negli anni '70, decise di fare le cose in grande, affidando il progetto a Rob Zombie, autore che, a discapito dell'odio viscerale che la critica statunitense riversava sui suoi film, si era fatto un buon nome nel settore.
D'altro canto, la rielaborazione di modelli classici è tutt'ora alla base dello stile di Zombie; anche se, forse, il modello stra-abusato dello slasher era davvero troppo lontano dalle sue corde, così come la mitologia carpenteriana fatta di forze maligne incontrollabili e mitologia celtica. Zombie ha però carta bianca: ricrea da zero il mito di Michael Myers, rendendolo più terreno, vicino al suo mondo sudicio fatto di relitti umani sboccati e scorretti. E finché si limita a ricreare, il film funziona.




Tutta la prima metà può essere ribattezzata "Rob Zombie's Halloween" ed è un un suo film a tutti gli effetti. Ritorna il white trash, i personaggi lerci e sboccati, immersi ora nella quotidianità della suburbia americana. La famiglia Myers diviene il perfetto coacervo di tutti gli orrori familiari possibili ed immaginabili: un patrigno idiota e violento che vorrebbe allungare le mani sulla figliastra, una madre premurosa ma ridotta ai minimi termini, un'ambiente sporco, intriso nel cattivo gusto, in cui il "fuck" è un intercalare d'obbligo. E poi c'è Michael, al quale il piccolo Daeg Faerch dona uno sguardo finemente inquietante. Michael viene ripensato da zero: non più l'incarnazione del Male sceso in terra, ma un comune ragazzino logorato dall'ambiente in cui vive, il cui comportamento rispecchia quello di un ideale prototipo di devianza: la violenza è parte integrante della sua vita, forma di escapismo dallo squallore quotidiano; lo vediamo per prima cosa uccidere senza ritegno dei cuccioli, per poi avventarsi contro i bulli che lo perseguitano. La caratterizzazione diviene terrena, realistica, attenta a creare una parabola disgregativa verso la sua psiche, che cederà un pò alla volta verso la devianza totale.
L'omicidio della sorella Judith, centro nodale di tutta la vicenda, diviene ancora più sinistro, quasi una forma di reazione alla noia nel quale affoga; non è un sacrificio rituale, né una punizione per il libertinaggio (Michael non assiste agli amplessi con il ragazzo), ma pura estrinsecazione del male che lo divora.




La parte centrale, il ricovero di Michael presso l'ospedale psichiatrico, è poco più di un ponte verso la seconda metà del film, ma presenta lo stesso soluzioni interessanti. Il Dr. Loomis fa la sua comparsa e sveste i panni del lunatico uomo di scienza che ha ceduto dinanzi all'assoluto per raccogliere quelli più terreni di un medico incapace di scrutare la mente del suo paziente. Il volto di Malcolm McDowell è perfetto per il ruolo: un ex hippie, totalmente convinto che la medicina psichiatrica possa essere la chiave per scandagliare ogni parte dell'esistenza, fronteggia un fallimento, una caduta dinanzi alla più terrena delle infermità.
Vediamo per la prima volta Michael consumarsi, chiudersi nel mutismo della ragione, costruirsi nuovi volti per tenere alla larga lo sguardo indagatore di Loomis dal suo subconscio, fino alla crisi finale: la morte della madre (Sheri Moon Zombie, che dimostra doti drammatiche incredibili), l'unico punto di riferimento nel mondo, distrugge ogni appiglio verso la sanità e lo reclude definitivamente alla mercé del suo Io più distruttivo.






Ed è qui che la visione di Zombie si esaurisce, si arresta sul terreno del nuovo per retrocedere a quello del già visto. Il "Rob Zombie's Halloween" cambia pelle e diviene il più classico e trito remake dell'originale. Tornano tutti i punti dello script di Carpenter e Debra Hill, condensati in appena 50 minuti di pellicola, rendendo impossibile per qualsiasi spettatore affezionarsi davvero a personaggi ed eventi.
Torna Laurie Strode, che ha ora il volta da bambina di Scout Taylor-Compton, così come l'improbabile storyline di una sua parentela con l'assassino, ripresa da "Halloween II- Il Signore della Morte" (1981). Torna la sua amica Annie, che ha il volto di quella Danielle Harris che da bambina fu la vittima dei vari ritorni e maledizioni di Michael Myers. Torna lo sceriffo Brackett, che ha ora il volto del veterano Brad Dourif, in scena per una manciata minuti ed in coppia nuovamente con Loomis, il cui ruolo di Van Helsing di provincia questa volta con convince più di tanto. Torna la maschera di William Shatner, resa più sporca e polverosa. Tornano persino le location californiane a fare da "body double" per l'Illinois, le stesse del 1978. Ma questi ritorni non sono che ombre, quasi semplici easter-egg che tolgono ogni profondità alla narrazione.
Lo schematismo dello slasher più puro calza stretto a Zombie, il quale non sa come muoversi al suo interno. Deve percorrere un sentiero pre-tracciato dal quale non può virare: la "notte delle babysitter" deve fare il suo corso, deve aversi la medesima successione nelle morti, deve aversi il medesimo confronto finale tra la final girl ed il mostro. Ogni variazione è minima, ogni volo pindarico, rielaborazione o variazione bandita.
E come in una sorta di crisi di ispirazione, Zombie, forse nel tentativo di dare una forma di personalità ad un prodotto industriale, fa parlare anche i personaggi della classe media come degli zotici sboccati: Laurie confessa scherzosamente alla madre le attenzioni erotiche di un professore e con le amiche si diverte a riempire di insulti lo stalker Michael, ammazzando la sospensione dell'incredulità.







Il remake fa il suo corso; le variazioni sono minime: il Dr. Loomis trova una morte temporanea in una sequenza a dir poco ridicola, Laurie viene inseguita forsennatamente dal babau per poi essere lei ad infliggergli il colpo fatale. Il Michael di Tyler Mane, a discapito dell'ingombrante presenza fisica, esegue il cerimoniale delle morti in modo ordinario, privo di originalità nell'esecuzione delle uccisioni, un pò in ossequio allo spirito realista del film, un pò in omaggio a quanto visto in passato. E Zombie non controlla la narrazione, né l'estetica: l'uso della camera a mano e del montaggio veloce non paga; questa volta le gesta del killer non sono inscenate negli assolati deserti del Texas, ma nei bui anfratti di una villa in decadenza; l'effetto è straniante: sembra di assistere ad un action di Michael Bay immerso in un contesto horror, tanto è la goffaggine grammaticale.






E alla fine, questo remake di "Halloween" finisce per fare il suo sporco lavoro: rivendere il marchio al pubblico per il tramite di un film che è l'ombra del suo originale; pallido, esangue, privo di mordente, si caratterizza per il solo tramite di quei primi 50 minuti davvero sorprendenti. Per il resto è pura routine, nonché l'esito peggiore nella carriera di Rob Zombie.

mercoledì 12 ottobre 2016

Hardware

M.A.R.K. 13

di Richard Stanley.

con: Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch, William Hootkins, Iggy Pop, Lemmy.

Fantastico/Post Apocalittico/Cyberpunk/Horror

Inghilterra, Usa 1990















Hollywood la macchina dei sogni, Hollywood la terra promessa, Hollywood la grande ammaliatrice, la Mecca del Cinema che tanti giovani talenti attira solo per distruggere a suon di compromessi e conformismo; Hollywood è sicuramente un crocevia essenziale per chiunque sogni di raggiungere la fama o di creare pellicole con valori produttivi talvolta anche semplicemente adeguati alle proprie ambizioni. Salvo poi cadere vittima dello strapotere e dell'ignoranza dei produttori.
Le storie di giovani filmmaker alle prime armi ed assetati di fama la cui carriera viene maciullata dagli ingranaggi del sistema hollywoodiano sono sempre esistite e sempre esisteranno (basti vedere cosa accaduto di recente a Josh Trank e Mark Landis), ma se c'è una parabola hollywoodiana che potrebbe assurgere a vero e proprio paradigma è quella di Richard Stanley.
Nato in Sud Africa, Stanley si fa notare ancora ventenne grazie al mediometraggio "Incidents in an Expanding Universe" per il suo approccio non convenzionale, anzi totalmente libero alla fantascienza. Si fa le ossa, subito dopo, dirigendo videoclip per i Fields of the Nephilim ed i Renegade Soundwave. Il suo esordio nel lungometraggio, "Hardware" datato 1990 diviene in brevissimo tempo una pellicola di culto presso gli estimatori della Sci-Fi meno ortodossa e dei B-Movies. Già nel 1992, Stanley riesce a trovare capitali americani per il suo secondo lungometraggio, anch'esso divenuto un piccolo e amato cult, il visionario "The Dust Devil"; ma il contatto con Hollywood avviene nel peggiore dei modi, per il tramite del diavolo in persona, al secolo Bob Weinstein, proprio lui, l'uomo in grado di eliminare mezz'ora di film da "Snowpiercer" (2013) perchè preoccupato del fatto che il pubblico dell'Oklahoma potesse non capirlo. Weinstein che già era stato coinvolto in modo marginale in "Hardware" ma che ora assume un ruolo predominante; e con un personaggio del genere a tirare le fila, la produzione di "The Dust Devil" finisce ben presto alle ortiche: in sala di montaggio tutto il film viene scompaginato e le sequenze più crude e paurose vengono mozzate in modo vistoso; dovranno passare oltre dieci anni e attendere l'avvento del mercato del DVD affinché Stanley possa finalmente dar vita ad una Director's Cut. In compenso, con il film successivo, il tristemente famoso "L'Isola Perduta" (1997), le cose andranno pure peggio.
Stretto tra le manie di protagonismo di un Val Kilmer fuori controllo e le ingerenze coatte del produttore Bob Shaye, Stanley si ritrova ad abbandonare il set in preda all'ira dopo pochi giorni, facendosi sostituire da un John Frankneheimer interessato solo alla paga, salvo poi tornarci in incognito travestito come una comparsa, come in un film di Mel Brooks. Ed il risultato è talmente disastroso da aver fatto storia e averlo costretto a ritirarsi dal mondo del cinema, per intraprendere una modesta carriera da documentarista.
Eppure quel suo primo lungometraggio, l'unico su cui abbia avuto il pieno controllo, è davvero un piccolo gioiello di fantascienza folle, un mix bizzarro ed affascinante di cyberpunk e visioni post-apocalittiche.






Facile intuire l'input alla base del progetto: il racconto "Shok!" apparso sulle pagine della mitica rivista 2000AD, il cui stile trasuda in ogni scena del film; la fantascienza folle, visionaria e grottesca di Judge Dredd e soci viene traslata su schermo in modo fedele.
"Hardware" è un vero e proprio mix di influenze eterogenee: il mondo desertico post-atomico di "Mad Max 2" (1981), le città fatiscenti, dove ciclopici palazzi danno rifugio a quel che resta dell'umanità ricordano le geometrie kafkiane di "Brazil" (1985) e vengono immersi in colori al neon e luci stroboscopiche come in "Blade Runner" (1982), mentre un androide assassino insegue una giovane donna come in "Terminator" (1984). Il tutto al servizio di una storia basica: il cacciatore di rottami Moses (McDermott) compra da un suo rivale i resti del prototipo di un robot da guerra, il M.A.R.K. 13, scambiandolo per un androide di servizio, al fine di regalarlo alla sua fidanzata, la scultrice Jill (Stacey Travis); nell'appartamento della donna, l'essere si riattiva e comincia a perseguitarla. Nulla più. Sarebbe quindi d'obbligo aspettarsi il classico slasher-horror, dove l'unico guizzo di originalità viene dato dall'ambientazione; ma sarebbe un errore: lo stile di regia ed alcune intuizioni narrative rendono "Hardware" un pellicola davvero folgorante.






La regia di Stanley si rifà ai classici del cinema di genere moderni: "Evil Dead" (1982) per l'uso dei movimenti di macchina in soggettiva, "Highlander- L'Ultimo Immortale" (1986) per l'uso espressivo del montaggio e persino l'allora recente "Tetsuo" (1988), dal quale vengono riprese diverse soluzioni visive ma anche il tema dello scontro tra la carne e il metallo.
"Hardware" è un film di puro montaggio, dove i tagli veloci e le inquadrature strette suppliscono agli scarsi valori produttivi per dare vita ad un mondo visionario, una post-apocalisse cinta tra le mura domestiche, fintamente sicure, nel quale il mostro è quella tecnologia da cui l'uomo ancora dipende (il robot, ma anche il portone blindato, le cui fauci sono spaventose al pari del villain).
Il mondo moderno è scomparso, la società è ridotta ad un gigantesco "slum", un inferno industriale nel quale vagabondi e senzatetto costituiscono la nuova umanità.




La tecnologia domina le vite dei comuni: l'appartamento di Jill è comandato da una gigantesca console di comandi. Ma al contempo, la tecnologia è un rudere, un cumulo di scarti e ferraglia avulso da ogni forma architettonica, è un elemento alieno, distaccato rispetto al resto delle scenografie ed ambienti. Da qui l'androide, ossia spazzatura che riprende vita: una tecnologia impossibile da fermare, in grado di ricrearsi da zero divorando ogni cosa che ha davanti. Una tecnologia che dovrebbe servire l'uomo, ma che finisce per distruggerlo, per dilaniarne le carni in un impeto omicida privo di fondamento. La tecnologia distrugge l'uomo, è per sua stessa indole forza disgregatrice, distruttrice il cui unico scopo è maciullare, fare a pezzi, sembrare le carni dell'essere umano (la citazione biblica, inventata dagli autori, "Nessuna carne sarà risparmiata"); una forza distruttrice che non può essere fermata con la violenza, con il ricorso alle armi convenzionali, essendo essa stessa un'arma, ma, per beffa, solo con l'acqua, ossia la fonte stessa della vita.





La visione di Stanley non è però ancorata alle regole del cinema di genere. Il ritmo è lento, quasi ipnotico anche nel terzo atto; l'azione e la violenza esplodono con fragore senza preavviso per poi tornare a nascondersi tra le ombre dell'appartamento o i vicoli luridi della metropoli (e qui è facile scorgere un'altra influenza eccellente, quella dell' "Alien" di Scott). Il ritmo interno delle singole scene è scandito dal montaggio frammentato, che spezza ogni azione in più segmenti e li alterna ai dettagli. Non c'è linearità nella messa in scena: come l'androide assassino, lo stesso film è un inseme di "rottami" che si coagulano per creare un unico essere. Il senso di claustrofobia e nervosismo viene così creato sopratutto per il tramite delle inquadrature e del loro alternarsi, piuttosto che dalle scenografie e dalla fotografia; le quali, nonostante il budget striminzito, non hanno davvero nulla da invidiare a produzioni più imponenti, anzi: l'uso dei forti contrasti anche cromatici crea un'atmosfera irreale, a metà strada tra fascino ed incubo, quasi un excursus all'interno della mente straniata dei personaggi.






Allo stesso modo, l'influenza eterogenea dei vari registri si fonde in un'unico stile, nel quale Stanley fa confluire una venatura grottesca degna erede delle pagine di 2000AD: la violenza viene elevata oltre il parossismo e i personaggi sono tutti sopra le righe, come il vicino di casa guardone, vero esempio di scrittura grottesca applicata al horror.
"Hardware" è pura anarchia visiva e narrativa applicata ad un registro squisitamente di genere. Una pellicola magistrale nella sua eterogeneità, affascinante ed ammaliante al punto da far rimpiangere la triste sorte toccata al suo creatore, visionario che ben miglior sorte avrebbe meritato.



EXTRA


Il caos produttivo e umano dietro le quinte de "L'Isola Perduta" è stato rievocato e documentato nel recente "Lost Soul: The Doomed Journey of Richard Stanley's Island of Dr.Moreau" di David Gregory, la cui visione è caldamente consigliata per capire lo stato di umano degrado a cui Stanley è stato esposto.





lunedì 10 ottobre 2016

R.I.P. Andrej Wajda



1926-2016


Una vita spesa in ragione dell'impegno politico. Andrej Wajda è stato un autore che non ha mai nemmeno conosciuto il significato della parola "compromesso": tutta la sua carriera è stata rivolta alla distruzione dell'ideale stalinista, alla lotta contro lo status quo sovietico che strozzava la sua Polonia. Con esiti talvolta scioccanti e memorabili, come nel provocatorio "Cenere e Diamanti" (1958) o nel recente ed imprescindibile "Katyn" (2007).

sabato 8 ottobre 2016

La Casa del Diavolo

The Devil's Rejects

di Rob Zombie.

con: Sid Haig, Bill Moseley, Sheri Moon Zombie, William Forsythe, Ken Foree, Leslie Easterbrook, Matthew McGrory, Michael Berryman, Danny Trejo.

Usa, Germania 2005


















Il successo de "La Casa dei 1000 Corpi" (2003) ripagò in pieno l'esiguo investimento della Lionsgate. Rob Zombie, al suo primo film, ottenne un buon riscontro di cassetta e riuscì ad assicurarsi il beneplacito di uno studio che, pur lontano dai fasti odierni, ben poteva giovare alla sua carriera. Tanto che il suo secondo film "The Devil's Rejects", arriva ad appena due anni dal suo esordio, in quell'estate del 2005 aridissima per il genere orrorifico.
Secondo lungometraggio che riprende i personaggi di quel buon esordio, la folle famiglia Firefly, per espandere il discorso para-nostalgico del cinema dell'orrore che fu verso territori nuovi, inediti. Laddove ne "La Casa dei 1000 Corpi" i punti di riferimento erano totalmente interni al "genere" orrorifico, in "The Devil's Rejects" Zombie si rifà ad un altro "genere" prettamente americano, il western, in particolare a quello di un autore che sulla carta non aveva nulla della sua poetica: Sam Packinpah. Il risultato è il suo film più originale, pur nei limiti della sua operazione di assimilazione di fonti esterne, nonchè, ad oggi, il più riuscito.






Ma prima di virare verso il western, "The Devil's Reject" parte proprio dal medesimo spunto del suo predecessore, il capolavoro di Tobe Hooper "The Texas Chainsaw Massacre" (1974), in particolare il suo stralunato (ed oggi fin troppo apprezzato) sequel del 1986; da qui viene ripresa l'idea di partenza, quella di uno sceriffo matto che da la caccia alla famiglia di killer; lo sceriffo Wydell (Forsythe) e la sua vendetta per l'uccisione del fratello (interpretato da Tom Towels, che qui torna nelle vesti di una visione) rappresentano l'incipit nonché l'unico vero punto di collegamento tra il film e il cinema horror tout court.
Tolta la premessa, è già dalla prima scena che l'attenzione di Zombie si sposta nei territori del western crepuscolare; prologo ed epilogo sono riproposizioni virate all'eccesso dei due capolavori di Peckinpah: l'assalto alla casa dei banditi con cui si apriva l'elegiaco "Pat Garrett & Billy the Kid" (1973), nonchè il massacro finale degli eroi de "Il Mucchio Selvaggio" (1969). Tutto quello che c'è in mezzo è pura sperimentazione, scompaginazione volontaria di ogni schematismo immerso in un'atmosfera ancora più sporca e lurida.




Il "white trash" di "The Devil's Rejects" non è dato dalla sola ambientazione e dai personaggi, ma sopratutto dalla fotografia. Al bando i movimenti di macchina fluidi (presenti in appena qualche raccordo) e la composizione geometrica dell'inquadratura, tutto il film è girato quasi esclusivamente con camera a mano e costruito con un montaggio spezzato, a tratti schizofrenico; mentre la fotografia si sgrana e si riempe di colori slavati, come quelli di una vecchia pellicola da due soldi invecchiata male. Due anni prima del tarantiniano "Grindhouse" (2007), Zombie riprende il look dei vecchi horror da drive-in, ma anzicchè ricrearne artificiosamente la patina a fini nostalgico-omaggistici, lo trasforma in strumento per rendere la visione più lurida, per aumentare lo squallore dell'atmosfera decadente, trasformando gli esterni texani in un vero e proprio immondezzaio a cielo aperto nel quale far muovere i suoi folli personaggi.






Personaggi che divengono ancora più malati e disturbanti. Lasciatosi alle spalle le leggende urbane del Dr.Satana e i riti satanici crawleyani del suo esordio, Zombie riplasma le sue icone in assassini psicopatici senza redenzione alcuna. L'intera sequenza centrale, con il sequestro del gruppo country, è una vera e propria antologia di bassezze e cattiverie spicciole in grado di disturbare in modo genuino anche lo spettatore meno sensibile. Il tutto lasciando lo splatter confinato in pochissimi fotogrammi: a far da padrone è qui la cattiveria più basica e terrena.






Ma dopo un'ora passata ad intessere questa cattiveria pura e manichea, Zombie decide di cambiare registro ed invertire i ruoli. Lo sceriffo Wydell passa idealmente dall'altro lato della barricata trasformandosi in un vigilante violento e pazzo come gli assassini che persegue. Mentre i Firefly vengono elevati ad icona sacra; non si tratta di idealizzare il male, né di cercare un che di buono in pugno di personaggi lerci, quanto quello di creare un'epica con al centro un gruppo di cattivi, di perfette maschere del cinema horror, al fine di cantarne la distruzione.
Il massacro finale, l'omaggio al Peckinpah più disperato e pessimista, è elogio funebre per un modo di intendere il cinema del terrore scomparso, una veglia funerea per un mondo distrutto da una modernità blanda e priva di ispirazione. Un'uscita di scena esplosiva al pari di quella del modello di riferimento, in grado di smuovere ad una forma di commozione intellettuale inusitata.






"The Devil's Rejects" in fondo è questo: un omaggio viscerale e pulsante ad un genere che il tempo ha distrutto, che la poca fantasia e la mancanza di ispirazione hanno seppellito sotto la mediocrità. Un omaggio lontano dalle derive più facili, più inutilmente nostalgiche, che colpisce gli spettatori in faccia in modo duro e diretto al pari di quanto facevano quelle pellicole che tanto rimpiange. Un omaggio di una compattezza stilistica inusitata, totalmente libero nella forma, scevro da ogni facile moralizzazione e mai compiaciuto. In un certo senso, un vero esempio da seguire.

giovedì 6 ottobre 2016

Il Colore Viola

The Color Purple

di Steven Spielberg.

con: Whoopi Goldberg, Danny Glover, Oprah Winfrey, Margaret Avery, Rae Dawn Chong, Willard E.Pugh, Akousa Busia, Laurence Fishburne.

Drammatico

Usa 1985













Contrariamente a quanto si possa pensare, lo status di dio in Terra che Spielberg aveva negli anni '80 non lo esimeva dal ricevere pesanti critiche; persino lui, l'uomo che aveva infranto il record di incassi del mondo, che aveva fatto rabbrividire un'intera generazione e ne aveva commosso due, non poteva sfuggire ad una pecca di facile rimprovero: il suo cinema era puro escapismo, rivolto principalmente ad un pubblico di ragazzini, privo di qualsivoglia impegno. Critica fondata: l'ultima volta che il Re Mida aveva cercato di creare una storia con un significato più o meno profondo, il risultato era stato il ben poco memorabile "Sugarland Express" (1974).
Dall'alto della sua posizione, Spielberg ben avrebbe potuto ignorare tale critica, forte di una carriera di tutto rispetto, oltre che dei più scontati numeri a suo favore; cosa che, forse per orgoglio, forse per ovviare davvero a tale pecca, non fece, decidendo di dirigere una pellicola per una volta davvero impegnata. E che impegno: a far da perno tematico fu niente meno che la segregazione razziale.
Una scelta del genere non deve assolutamente stupire; il tema razziale si era affacciato nel mondo dello spettacolo mainstream americano già alla fine degli anni '70 con la splendida e storica miniserie televisiva "Radici" (1977) e negli anni '80 sarebbe stato affrontato di petto da un'altra pellicola che ben avrebbe fatto parlare di sè, il facile "Mississipi Burning" (1988).
Trovata la tematica, la scelta del soggetto arriva di conseguenza ed è anch'essa dettata dal tempo: il romanzo epistolare "Il Colore Viola" di Alice Walker, pubblicato nel 1982 e premiato l'anno successivo con il premio Pulitzer.
L'adattamento di un romanzo pluripremiato, l'uso di un registro drammatico (o para-drammatico, nei fatti), il coraggio di mostrare una violenza esplicita su schermo paradossalmente portano Spielberg a creare uno dei suoi film meno riusciti: "Il Colore Viola" è un film "impegnato" solo nelle intenzioni, poche volte nel modo in cui maneggia i contenuti e talvolta neanche nella forma, un'opera malriuscita e a tratti ridicola, in fondo nemmeno più matura di nessuno dei film di intrattenimento che che aveva diretto in precedenza.






"Il Colore Viola" è una storia sull'emancipazione, sui maltrattamenti subiti da una povera donna (Celie, interpretata da un'esordiente e bravissima Whoopi Goldberg) sullo sfondo dell'America dei primi del '900. Non tanto un racconto sul razzismo, quanto un pamphlet sulla necessaria indipendenza e parità tra sessi.
Celie è la vittima: donna di colore, sottoposta sin dalla tenera età agli abusi, anche sessuali, del padre, solo per poi essere venduta ad un marito (Danny Glover) ottuso e violento. Suoi opposti sono altre due donne: l'emancipata Shug (Margaret Avery) e la forte Sofia (Oprah, anch'ella esordiente); la prima è uno spirito libero, in grado di sottomettere da sola più di un partner, che trova nel canto la sua affermazione e che riesce, con l'amore e la comprensione, a far uscire Celia dal suo guscio di oppressione; la seconda è invece protagonista di un arco antitetico a quello della protagonista: da donna dalla forte fibra fisica e morale si ritrova spezzata nel corpo e nello spirito, salvo poi ritrovare sé stessa proprio grazie alla forza di Celia.
La loro è una storia di soprusi, di oppressione causata prima di tutto dalla figura maschile e poi da quella del "bianco", il quale resta in fin dei conti sempre sullo sfondo. L'uomo è qui essere tirannico, volitivo, genuinamente stupido. La segregazione impedisce ai più di formarsi, di avere una cultura salvifica (situazione opposta a quella dei missionari in Africa, che tramite l'alfabetizzazione emanciperanno i figli e la sorella della protagonista), creando una società sporca, dove gli esseri incapaci di provvedere ai propri bisogni vengono lasciati a sé stessi (Albert, abbandonato da Celia, cadrà presto in disgrazia, non essendo in grado di badare alla casa).
Un mondo dove solo l'affermazione di sé può portare al riscatto, dove il rispetto va urlato, dove non c'è spazio per i compromessi. Al massimo solo per il perdono, per una riappacificazione nell'istituzione familiare (che come sempre nel cinema di Spielberg è elemento necessario, anche quando può essere fucina di abusi) o per una redenzione finale.






Laddove il film sbaglia è nella scelta dei toni, quasi sempre sbagliati. Spelberg usa un registro comico e sognante, immerge le situazioni più drammatiche in contesti spesso farseschi, taglia tutti i personaggi con l'accetta ed inserisce inserti umoristici a iosa. L'atmosfera non è mai plumbea o opprimente, non si riesce ad avvertire il dramma di Celie, la sua paura costante nel vivere sotto lo stesso di Albert, né a temere per la sua incolumità.
La scelta di caratterizzare il marito aguzzino come un idiota nemmeno troppo violento fa scadere il tutto nella pantomima; è come se questi personaggi non fossero mai delle persone, ma solo delle figurine, dei "pupi" in una ricostruzione da strada delle vicende.
L'umorismo dà la stoccata finale: a tratti sembra di assistere ad uno spettacolo di vaudeville dove i personaggi di colore sono tutti delle caricature con la faccia dipinta, degli "adorabili idioti" impegnati in risse che ricordano quelle di "1941" (1979), in triangoli di amore e gelosia da operetta o in scene di abuso da telenovela.
Non si riesce mai a prendere le vicende di Celie e soci sul serio: il dramma latita, annacquato in una narrazione distratta, goffa nei toni, troppo impegnata a stemperare i risvolti più drammatici; finendo per diventare una parodia involontaria di sé stessa. Tanto che l'unica sequenza a non risultare fredda o ridicola è quella in cui la protagonista decide finalmente di emanciparsi, rara concessione alla serietà in 134 minuti di pellicola.





Ed il fatto che Spielberg si sia deciso a fare il film per provare di non essere un ragazzino troppo cresciuto appare ironico: il suo atteggiamento è proprio quello di un bambino che dinanzi ai problemi e alle brutture della vita cerca di rifugiarsi in un mondo fatato, dove ogni orrore non è poi così brutto se filtrato per il tramite giusto. Tanto sarebbe valso, alla fine, restare a fare "film per ragazzini" (o presunti tali, vista la loro caratura effettiva) nei quali dimostrava una maturità molto maggiore.

domenica 2 ottobre 2016

Pasolini

di Abel Ferrara.

con: Willem Dafoe, Maria De Medeiros, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande, Valerio Mastandrea, Luca Lionello.

Biografico/Drammatico

Italia, Francia, Belgio 2014














Scandalizzare è un'arte; spiazzare lo spettatore, colpirlo in faccia con un pugno metaforico per bandirne il torpore intellettuale, sparargli in faccia verità o situazioni scomode è una perizia che solo un grande artista può saper padroneggiare. E Abel Ferrara ha sfoggiato tale perizia fin dal suo esordio, quel "Driller Killer" (1979) che riprendeva alcunii topoi del horror per imbastire un racconto sulla paranoia metropolitana in grado di penetrare dritto nel cervello di chi lo osserva grazie ad un registro sporco e decadente. Ferrara è un autore che non si tira mai indietro, che non giunge a compromessi neanche quando budget da terzo mondo glielo impongono. E che non ha certo paura di mostrare l'immostrabile.
E per paradosso puro, il film accolto con più polemiche durante la sua trentennale carriera è stato il suo (ad oggi) ultimo, quel "Pasolini" che tanti isterismi ha generato alla 71ma edizione del Festival di Venezia.




Era impensabile che un regista americano, pur definitosi "italiano del Bronx", potesse mettere mano ad un'istituzione italiana di cotale importanza, ossia la memoria di quel poeta, scrittore, regista, o forse semplicemente artista che tanto scandalo generò ai tempi della Prima Repubblica. Lui, Pasolini, che di provocazioni viveva, che faceva dell'anticonformismo ragionato un ideale di vita. Lui, l'autore maledetto, odiato dalla destra, deprecato dalla sinistra, colui che non si faceva costringere dall'ideale, che era sempre in grado di osservare la realtà con piglio realista e al contempo surreale, di creare incontenibili apologhi sulla corruzione morale della classe dirigente senza rinnegare le sue radici cattoliche. Pasolini, la coscienza di un Italia, abbandonata sul litorale di Ostia dopo anni di insulti, solo per essere riscoperta da una nuova generazione di finto-sinistrorsi e radical chic da accatto, pronti a scomodarne la figura per ogni tornaconto personale o di partito, sino a garantirne una forma di idealizzazione ignorante che lui di certo avrebbe detestato e che altrettanto certamente non rende giustizia né alla sua persona, né al suo pensiero.
Eppure, l'incontro di queste due personalità non deve stupire. Sia l'opera di Ferrara che quella di Pasolini sono ossessionate, in un modo o nell'altro, dal concetto di morale, dalla ricerca spasmodica di una forma di "bene" ostracizzato dalle pulsioni personali o sociali. Laddove il primo canta spesso storie di redenzione disperata, il secondo contempla l'apocalisse causata dalla dimenticanza dei valori umani. Affinità di facile spiegazione: Ferrara ribadisce sovente come la visione dei film di Pasolini lo abbia formato sin dalla giovane età, di come lui, ex cattolico ed oggi buddista, tanto debba agli insegnamenti del maestro emiliano.
"Pasolini"si pone dunque come l'omaggio di un allievo al proprio precettore. Non alla memoria di questi, alla sovrastruttura che gli imbelli intellettualoidi italiani hanno imbastito per garantirne la fama come lustrino di un Italia in totale crisi esistenziale. Un omaggio che non vuole dare un ritratto o uno spaccato del grande autore, ma solo rievocarne la figura, sia sul piano umano che artistico, senza dare giudizi o apologie ed evitando le caustiche (e talvolta gratuite) teorie complottistiche sulla sua morte. Operazione che mostra il fianco sin da subito ad ogni limite possibile ed immaginabile e, di conseguenza, alle critiche più feroci; e che, alla fin fine, risulta ben più riuscita di quanto si voglia ammettere.






La prima sequenza è esemplare: Pasolini emerge dalle tenebre, in una ricostruzione dell'ultima intervista completa da lui rilasciata, alla vigilia della distribuzione di "Salò" (1975); L'effetto è straniante: dalle ombre sembra emergere proprio lui, redivivo incarnato nei lineamenti di un Willem Dafoe ispiratissimo, che non imita, ma interpreta davvero il suo personaggio, riuscendo lo stesso a coglierne le più piccole sfumature fisiche, in una prova che se fosse stata data in un'opera meglio recepita, sarebbe stata sommersa di premi e riconoscimenti. Con uno stacco, ci si ritrova dentro il suo ultimo lavoro letterario, l'incompiuto e amaro "Petrolio"; un suo doppio, non lui ma un personaggio che per sua stessa ammissione lo ricorda, si ritrova su di un lungomare in compagnia di un gruppo di "ragazzi di vita", in una fellatio che Ferrara non cela con stacchi o artifici. Il nucleo tematico dell'opera è tutto qui: la giustapposizione tra il sacro e l'esecrabile, tra il Pasolini artista profetico e l'uomo che non ripudiava l'amore carnale più basso e sporco. Scena che anticipa e doppia quella della morte del poeta, ripetizione e rincorsa tra reale ed immaginario che si farà, nel corso del film, stratagemma narrativo: l'arte imita la vita, la vita si rispecchia nell'arte; nel mondo di Pasolini non c'è distinzione tra l'una e l'altra.






L'ombra della morte si allunga a ritroso per tutto il film. L'atmosfera è costantemente plumbea, ammantata da un'aurea di fatalità percettibile eppure impossibile da razionalizzare. Ma Ferrara non celebra la morte del poeta: quando questa arriva è secca, brutale, spogliata da ogni forma catartica.
L'attenzione dell'autore è tutta rivolta verso il personaggio e la sua poetica. Ecco dunque rievocata l'ultimissima intervista, rimasta monca, nella quale Pasolini espone il suo pensiero anti-materialista. E sopratutto, ecco per la prima volta prendere vita su schermo gli appunti e le sequenze di quel "Porno-Teo-Kolossal", il film che Pasolini non ha mai realizzato, con Ninetto Davoli a prestare il volto al compianto Eduardo e Riccardo Scamarcio a vestire i panni dello stesso Davoli.






Non ci si deve stupire, in fondo, se la visione di Ferrara si ferma qui. Al di là delle intenzioni esplicite, bisogna tenere conto di come "Pasolini" sia il frutto di quell'attività anticonvenziale che da sempre ha caratterizzato il suo cinema. Così come in "The Addiction" (1995) gli schematismi della narrazione filmica venivano abbattuti per creare nuovi significanti, così adesso la narrazione viene totalmente asservita alla pura rievocazione, alla contemplazione stoica del modello di riferimento. I limiti sono evidenti: non c'è mordente, non c'è vera complessità, lo sguardo è semplice (ma mai semplicistico), la narrazione priva di enfasi. Al contempo, si tratta di limiti impliciti, che l'autore accetta nel momento del concepimento stesso dell'opera, per questo non più di tanto rimproverabili.
Tanto che l'unico vero rimprovero che può essere mosso a Ferrara riguarda la pura messa in scena; l'uso di canzoni pop per accompagnare le escursioni notturne di Pasolini per le borgate è sin troppo straniante; la ricostruzione dell'epoca talvolta inciampa in anacronismi dovuti ad un budget basso. E il casting mostra il fianco quando si tratta di rendere credibile gli attori di contorno: Davoli interpreta il napoletanissimo De Filippo con un marcato accento romano, mentre Scamarcio non ha lo sguardo limpido e il sorriso verace di Ninetto.






Un'opera scostante, ispirata ma volutamente piatta; un'omaggio sentito, ma troppo personale. "Pasolini" non è un film facile, è si riuscito, ma mai davvero vivido; per comprenderlo ed apprezzarlo bisogna essere predisposti con un'adeguata forma mentis; un limite "invalicabile", che lo rende di conseguenza fin troppo velleitario; eppure, il fascino che trasuda è innegabile per chiunque apprezzi la figura e l'arte del compianto Pasolini.